«Se Bossi chiede, ovviamente per lui il posto c’è sempre», aveva assicurato Matteo Salvini. E così è stato, si aspetta solo l’ufficialità del deposito delle liste, ma in casa Lega confermano tutti: capolista nel listino proporzionale alla Camera collegio di Varese. Il regno di Bossi e della Lega federalista, elezione certa, dunque.

La candidatura di Umberto Bossi, il fondatore della Lega Nord, è ormai una consuetudine, non c’è neppure bisogno che qualcuno la chieda o la imponga. Il suo nome fa da collante tra il passato e il presente, nonostante sia stato al centro dello scandalo che ha indebitato il partito per 49 milioni di euro. Ma è proprio in quel finale di stagione politica che vanno cercati i motivi dell’attuale candidatura.

Se dovesse essere eletto, come probabile, per il “Senatur” della padania sarebbe l’ottava legislatura, che potrebbe peraltro coincidere con il ritorno del centrodestra compatto al governo, coalizione che ha contribuito a plasmare a partire dal 2001 con Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini e che ha dato molte soddisfazioni alla Lega Nord di un tempo: Bossi è stato ministro più volte, porta anche il suo nome la legge sull’immigrazione, per certi aspetti più repressiva dei decreti sicurezza firmati dall’allievo Salvini quando era ministro dell’Interno tra il 2018 e il 2019.

Bossi forever

C’è però un’anomalia nella decisione del leader attuale della Lega, ormai non più del nord ma votata al sovranismo. Bossi è stata la causa insieme al tesoriere dell’epoca, Francesco Belsito, di uno dei più gravi scandali finanziari che hanno riguardato un partito politico. Nel 2012, infatti, è deflagrato il caso dei rimborsi elettorali usati per le spese private della famiglia Bossi. Il fondatore ha dovuto lasciare la segreteria, finita in mano a Roberto Maroni, e con i militanti divisa tra frangia delle ramazze che chiedeva pulizia e trasparenza, considerati traditori da chi invece aveva giurato fedeltà incondizionata al “Senatur”.

Sono stati gli anni più bui per la Lega, che alle elezioni del 2013 ha toccato il fondo con il 4 per cento, la metà rispetto a cinque anni prima. Dall’inchiesta sui rimborsi è scaturito anche il filone sulla truffa dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali: la sentenza del tribunale fino in cassazione ha stabilito che la Lega Nord deve restituire ogni centesimo di quella somma ottenuta presentando rendiconti fasulli. Bossi e Belsito condannati in primo grado, hanno poi beneficiato della prescrizione come stabilito dalla suprema corte. La prescrizione però non ha cancellato il debito, che la Lega Nord sta pagando in comode rate annuali dopo un accordo tra gli avvocati del partito di Salvini e la procura di Genova. Nel frattempo, a partire dalla fine del 2017, la Lega Nord è diventata una scatola vuota, perché il leader ha fondato Lega Salvini premier, formazione nazionalista ramificata fino in Sicilia. Per molti vecchi militanti il tradimento definitivo alle istanze federaliste settentrionali. E allora perché candidare ancora una volta Bossi?

Il patto tra vecchio e nuovo

Di certo c’è che Salvini non ha mai voluto fare i conti con la stagione degli scandali dei rimborsi. Avrebbe potuto farlo ed evitare alla Lega Nord un salasso milionario, ma ha preferito mediare e non andare allo scontro: sarebbe stato sufficiente costituirsi con il partito parte civile nel processo contro Bossi e Belsito a Genova per ottenere il risarcimento del danno d’immagine provocato dalle manovre truffaldine dell’allora tesoriere fedelissimo di Bossi. Nel 2014, pochi anni prima dell’inizio del processo per truffa nel capoluogo ligure, ha persino firmato una scrittura privata con Bossi e l’avvocato di quest’ultimo in cui si elencavano alcune clausole nel rapporto tra il vecchio e il nuovo leader. Il quarto punto del documento, per esempio,stabiliva che al presidente della Lega (Bossi) sarebbero andati 450 mila euro l’anno «comprese le spese per lo staff e di propria segreteria per i quali si troverà con l’accordo tra le parti un metodo fiscalmente corretto».

Al secondo punto si prevedeva la possibilità per Bossi di indicare candidature in posizioni di probabile elezione nella misura del 20 per cento. La settima clausola era relativa ai processi di Bossi: la Lega non avrebbe dovuto interferire con azioni risarcitorie nei confronti di alcuno della famiglia del fondatore.

«Non è mai stata rispettata quella scrittura privata, se pagare il suo staff vuol dire pagarli un vitalizio allora lo pagano pure a Salvini», dicono dall’entourage di Bossi. è un dato però che a partire dall’anno di quell’accordo scritto e firmato da Bossi e Salvini, il fondatore è sempre stato ricandidato nonostante il partito sia diventato altra cosa dalla sua cara vecchia Lega nordista. E nonostante Bossi non abbia mai nascosto il suo malumore nei confronti di Matteo e del metodo di gestione del partito. «Salvini ha parlato prima di pensare, se per colpa sua saltavano autonomie di Lombardia e Veneto lo appendevano in piazza come il suo amico Mussolini», aveva dichiarato a Repubblica tv nel 2018. In un’altra intervista, anno 2020, ha lanciato l’ennesimo messaggio chiaro a Salvini: «Il Nord viene barattato per i voti al Sud. La questione settentrionale, di nuovo al centro del dibattito leghista, con i venti frondisti che si levano da Lombardia e Veneto, resta il faro». Senza dimenticare nel 2019 la sua chiusura a concedere il simbolo storio della Lega alla nuova formazione sovranista di Salvini: «Se Salvini vuole avere la possibilità di avere il simbolo della Lega nel partito che sta facendo, deve raccogliere le firme». Roba che detta da altri avrebbe portato all’espulsione diretta o quantomeno al siluramento dalle liste. Per Bossi no, anzi: candidato di nuovo con la Lega sovranista, potrà beneficiare ancora del seggio e del lauto stipendio da parlamentare. In segno di riconoscenza eterna.

© Riproduzione riservata