Dopo aver a lungo tergiversato, questo martedì la Commissione europea ha fatto un passo per far rispettare i criteri democratici in Ungheria. Ha espresso la volontà politica di avviare la procedura prevista nel «meccanismo di condizionalità», e cioè la leva che vincola l’erogazione dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto. La scelta di comunicare questo passo il 5 aprile, cioè dopo le elezioni ungheresi nelle quali Viktor Orbán ha stravinto, non è dovuta a una improvvisa presa di coscienza sulle derive illiberali in corso in Ungheria. Al contrario. Ursula von der Leyen ha rispettato fino all’ultimo l’accordo siglato durante l’era Merkel con l’autocrate ungherese. Quell’accordo prevedeva proprio di non intervenire con il meccanismo fino alle elezioni. E infatti niente di concreto è stato fatto fino a che Orbán non si è garantito la riconferma. C’è di più: come conferma la squadra del commissario Ue agli affari economici, Paolo Gentiloni, Bruxelles sta negoziando con la Polonia il via libera al suo Recovery plan. Significa che, dopo aver agito troppo tardi con Budapest, l’Unione europea acconsente a un compromesso con l’altro grande paese che viola lo stato di diritto. Non a caso contro Varsavia il meccanismo di condizionalità non viene attivato. La scelta rientra dentro una strategia che Bruxelles e Washington hanno condiviso negli ultimi mesi: rafforzare i legami con la Polonia e marginalizzare l’Ungheria, ma comunque con estrema lentezza.

Il grande ritardo

«La Commissione si muove con notevole e ingiustificabile ritardo», dice l’eurodeputata ungherese Katalin Cseh, esponente del partito liberale di opposizione Momentum. Cseh dai banchi dell’Europarlamento spinge da anni ormai, perché Bruxelles freni l’autocrate al governo nel suo paese. A metà febbraio, prima che la guerra scoppiasse e a pochi giorni dal voto, aveva messo in guardia sull’atteggiamento di Bruxelles verso Orbán, «Avete presente il film Don’t look up? C’è un asteroide che si dirige verso la terra, ma i leader politici non fanno che ripetere: “Valuteremo la cosa”. Questo è ciò che sta facendo la Commissione europea. L’asteroide è la crisi dello stato di diritto nell’Ue e Bruxelles che fa? Sta ad aspettare». L’atteggiamento attendista ha radici lontane, e risale a prima che Ursula von der Leyen assumesse la guida della Commissione. Nel 2019 von der Leyen viene eletta presidente con il sostegno e i voti sia del partito orbaniano Fidesz, che del Pis, il partito ultraconservatore al governo in Polonia. Ma prima ancora, nel 2018, il parlamento europeo ha già messo nero su bianco la gravità della deriva indemocratica ungherese. Nel «report Sargentini» è già tutto scritto: nel luglio di quattro anni fa, la europarlamentare verde olandese Judith Sargentini attesta la «grave violazione» dei valori fondanti dell’Unione europea. Dalla libertà di espressione al rispetto dei diritti delle minoranze, quel dossier raccoglie tutti gli elementi che oggi, in forma più estesa e grave, caratterizzano la deriva illiberale di Orbán. A settembre del 2018, gli eurodeputati approvano il dossier e per la prima volta avviano la procedura dell’articolo 7, che è il primo strumento dell’Ue per intervenire in casi di questo tipo. Che fine ha fatto quella procedura? Per essere completata richiede un accordo dei governi, in Consiglio, e «non registro progressi recenti», conferma l’eurodeputata Cseh. Nel frattempo da quando l’Ue ha scelto la strada dell’indebitamento comune esiste un altro strumento, il meccanismo di condizionalità. Ma anche questo è stato tenuto in ostaggio finora, per un patto tra Budapest e Berlino.

Da Merkel a Biden

Il tentativo di alcuni governi di frenare iniziative concrete contro l’Ungheria è chiaro durante la pandemia, nel luglio 2020, quando il Consiglio europeo cerca, e poi trova, un’intesa sull’indebitamento comune. La battaglia dell’europarlamento e di alcuni paesi particolarmente intransigenti sullo stato di diritto, come l’Olanda, consente ad ogni modo di sdoganare il «meccanismo di condizionalità», che vincola l’erogazione dei fondi alla rule of law. A fine 2020 c’è l’accordo, e dal 1° gennaio 2021 il meccanismo è in vigore. Come mai finora non è stato applicato? La ragione sta in un patto stretto dall’allora cancelliera Angela Merkel con il premier ungherese e quello polacco, Mateusz Morawiecki. La Germania di Merkel, che coi paesi dell’est ha una interdipendenza asimmetrica perché lì hanno sede le sue manifatture automobilistiche, ha sempre spinto per il compromesso. Quando Berlino ha assunto la presidenza di turno al Consiglio dell’Ue, nel secondo semestre del 2020, Orbán e Morawiecki per evitare che il meccanismo andasse in porto hanno minacciato il veto sui fondi Ue e Merkel ha stretto con loro un accordo: il meccanismo formalmente esiste, ma la cancelliera garantisce che non verrà applicato prima delle elezioni ungheresi. Nonostante l’insistenza dell’Europarlamento, che accusa Bruxelles di inazione, succede proprio così: prima la Commissione temporeggia con l’alibi di un ricorso dei due paesi alla Corte di giustizia Ue, ricorso che la Corte come prevedibile respinge. Poi von der Leyen prende tempo dilatando le procedure burocratiche. Solo questo martedì, e cioè dopo le elezioni del 3 aprile, la presidente ha comunicato l’intenzione di attivare il meccanismo verso l’Ungheria, sulla base di «questioni legate alla corruzione». Ma la notifica formale deve ancora partire, «spediremo la lettera nei prossimi giorni», dice la commissaria Ue Vera Jourová. Dopodiché l’iter è lungo, prevede repliche di Budapest e per andare a segno necessita di una cospicua maggioranza di governi Ue a favore. Servirà tempo, e nessuna iniziativa è prevista invece verso Varsavia. Anzi: la Commissione ha intenzione di sbloccare – per la Polonia, non per l’Ungheria – i fondi del Recovery. I negoziati sono in corso, per condizionarli Varsavia sta bloccando l’approvazione della tassa globale sulle corporation. Per far rispettare lo stato di diritto in Ungheria, l’Ue è arrivata fuori tempo massimo. Sta commettendo lo stesso errore con Varsavia. La ragione è la scelta avviata da Joe Biden sin da questa estate e fatta propria da Bruxelles, di tenere legato a sé il governo polacco in un momento in cui l’ancoraggio di Varsavia alla Nato, agli Usa e all’Ue è ritenuto strategico.

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