«Sei milioni di cittadini hanno ricevuto il settled status e possono restare nel Regno Unito!», ha ribadito con orgoglio il ministero degli Esteri britannico. Ma la realtà non coincide con queste frasi a effetto: per i cittadini italiani, europei, che vivono nel Regno Unito, il limbo di Brexit non è finito.

Per poter continuare a vivere nel Regno, i cittadini europei hanno dovuto fare domanda di settled status. Una richiesta per restare a casa propria, anche dopo decenni.

Il settled status non esiste come documento cartaceo da poter mostrare ai datori di lavoro, a banche, ospedali, aeroporti, università, al dipartimento delle pensioni o alla sanità. E spetta a loro fare da controllori. Per accedervi, bisogna andare online, inserire il numero di passaporto o di carta d’identità, rispondere a qualche domanda per la sicurezza, immettere il numero del richiedente, a cui viene inviato un codice, che il richiedente a sua volta deve inserire in un sito web, dove dovrebbe apparire la foto del cittadino con le informazioni.

Appesi a un codice

Immaginate un anziano o chi non abbia dimestichezza con il computer, che debba generare un codice per accedere alla sanità. Immaginate il proprietario di un immobile che debba scegliere se affittare la casa a un cittadino europeo, dovendo mettersi a fare ricerche online, o a un non-europeo con un visto cartaceo. Immaginate insomma la vostra vita legata a un codice per dimostrare il vostro diritto a restare in un paese.

Peccato poi che i codici spesso non funzionino, come è successo a un giovane italiano che era stato assunto da una multinazionale: lo ha rimandato a casa fino a quando la situazione non si è risolta.

Una cittadina spagnola residente nel Regno Unito da 29 anni e sposata a un inglese aveva affittato un appartamento a Oxford. Coi camion pronti per il trasloco, si è sentita dire dall’agenzia che non le avrebbero dato le chiavi di casa fino a quando il codice non avesse funzionato. E che dire quando molti cittadini, volendo fare una verifica online, hanno visto apparire la scritta: «Il tuo settled status non si trova»?

Lasciati indietro dal governo

C’è poi chi la domanda l’ha fatta, ma non ha ancora avuto risposta. Il governo ha un arretrato di oltre 450mila pratiche da smaltire. Ci aveva rassicurati che nell’interim i nostri diritti sarebbero stati protetti, ma c’è chi è stato discriminato o ha perso il lavoro nell’attesa di un certificato che comprovasse l’avvenuta domanda di settled status. Preoccupa poi chi la domanda non l’ha ancora fatta: anziani soli, bambini, persone vulnerabili, vittime di abusi domestici che hanno più difficoltà ad accedere ai documenti talvolta negati dal partner, minoranze come i Rom. Ho incontrato molti cittadini che non sapevano di dover fare domanda per i propri figli. Quanti bimbi resteranno senza documenti? E sappiamo di casi in cui il settled status è stato rifiutato a un minore, perché non c’erano abbastanza prove per dimostrare la sua residenza nel Regno Unito.

Bambini, anziani, fragili a rischio

Immaginate una famiglia in cui i genitori abbiano il diritto a restare e i figli, o un figlio no. È successo! Altri, fra cui molti anziani, non hanno fatto neppure domanda perché credono di avere ancora il diritto a restare, diritto che gli era stato conferito al loro arrivo nel Regno Unito nel dopoguerra, quando, su invito del governo, erano giunti nel Regno Unito a lavorare nell’industria tessile del nord, per esempio.

Altri non hanno fatto richiesta di settled status perché, durante la pandemia, i centri per l’assistenza face to face, così come le ambasciate e i consolati sono rimasti chiusi e vi sono stati ritardi. Il governo britannico, dopo tante pressioni, sta accettando le domande dopo la scadenza del 30 giugno, ma quanti cittadini diverranno illegalmente residenti e in balìa del cosiddetto “ambiente ostile”? L’ambiente ostile è il sistema, creato da Theresa May nel 2012 per scoraggiare l’immigrazione, con il quale sono cambiate migliaia di regole sull’immigrazione in modo retrospettivo, portando alla detenzione e deportazione di alcune centinaia di cittadini non europei.

Altra nefasta conseguenza dell’ambiente ostile è stata la separazione di migliaia di famiglie in cui il coniuge straniero non aveva il diritto di vivere nel Regno Unito con il partner inglese se questo non guadagnava oltre una certa cifra. Le famiglie in questione sono note come “famiglie Skype”: gli unici contatti possibili tra i loro membri erano via Skype.

Fra i deportati, molti caraibici – e i loro discendenti – che erano stati invitati dal governo di sua maestà in Gran Bretagna nel dopoguerra a lavorare; si sono trovati all’improvviso sprovvisti dei documenti necessari poiché erano state cambiate le regole sull’immigrazione.

Un nuovo scandalo

Ne è seguito uno scandalo noto come Windrush, dal nome della nave con cui i primi immigrati sono arrivati nel Regno Unito, ignari che un giorno il paese che li aveva accolti quando servivano per la ricostruzione nel dopoguerra, li avrebbe poi respinti con figli e nipoti.

Ora che i cittadini europei sono declassati alla stregua degli extra-europei, il timore è che ci stiamo avvicinando a un nuovo scandalo Windrush. Sarà più grande: siamo di più. La parlamentare laburista Yvette Cooper parla infatti di uno scandalo Windrush on steroids. Brexit non solo ha portato a dazi, controlli doganali, ma alla perdita di diritti.

Il boomerang dei camionisti

Il governo ha fatto della riduzione drastica dell’immigrazione il suo vessillo e ora paga la conseguenza: con un dietrofront imbarazzante, ha dovuto chiedere ai camionisti che hanno lasciato il paese di tornare, per evitare code per la benzina o scaffali vuoti nei supermercati. Per garantire che il tacchino arrivi sulle tavole degli inglesi a Natale, ha concesso loro, in via eccezionale, di potersi recare nel Regno Unito, ma solo fino alla vigilia di Natale. Le persone non sono merci da potere usare e poi gettare via a piacimento, e la scelta di chiudersi all’immigrazione ha delle gravi ripercussioni. Tant’è che solo in 27 camionisti su 5mila hanno risposto all’appello, rendendo così necessario l’intervento dell’esercito.


Elena Remigi è la fondatrice del progetto “In Limbo”, che si occupa dei diritti dei cittadini europei e britannici con la Brexit

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