Ci siamo quasi. Un passo dopo l’altro, l’Unione europea lavora al cacao a deforestazione zero. Non sarà più un’opzione, un’attenzione dei palati sensibili all’ambiente, ma un vero e proprio obbligo dovuto all’emergenza ambientale. Molti di noi non ci fanno caso, eppure la mattina, quando bevono latte di soia o anche solo un semplice caffè, quando sgranocchiano biscotti al cioccolato, è un po’ come se stessero sgranocchiando foreste.

Cibo e foreste

Bruxelles lo sa, e lo scrive pure: «Il principale fattore di deforestazione è l’espansione dei terreni agricoli per allevare bestiame, per ricavare legna, per produrre olio di palma, soia, cacao, caffè». La quantità di ettari di foreste che è andata persa in trent’anni – dal 1990 al 2020 – è superiore alla superficie dell’intera Unione europea: la Fao calcola 420 milioni di ettari di foreste spazzati via. E la responsabilità è anche di noi europei, non soltanto per ciò che produciamo, ma soprattutto per quel che importiamo.

«La perdita di foreste legata ai consumi europei è dovuta quasi interamente alle importazioni», ci avvertiva già nel 2013 un report tecnico stilato dalla Commissione europea per valutare l’impatto dei nostri consumi sulla deforestazione mondiale.

La spinta degli europei

È almeno dal 2019 che la Commissione europea ha dovuto attivarsi sul tema. Ma per convincere Bruxelles a intervenire in modo efficace è stata determinante la pressione dell’opinione pubblica. Quando la Commissione europea ha avviato una consultazione pubblica sul tema della deforestazione, la partecipazione è stata tra le più alte di sempre, con oltre un milione e duecentomila reazioni.

Quasi duecento organizzazioni non governative si sono coalizzate per fare fronte comune sulla protezione degli ecosistemi: “Together for Forests” (“Insieme per le foreste”) tiene insieme il Wwf, Greenpeace, ClientEarth e altre ong. Un totale di 180 organizzazioni che premono perché le nuove regole europee siano davvero incisive.

Il ruolo di Bruxelles

A novembre la Commissione europea ha presentato la sua proposta di regolamento: significa che una volta concluso l’iter istituzionale, ci saranno regole precise e identiche per tutti gli stati membri. Determineranno quali prodotti possono entrare, uscire e circolare nel mercato comune, e quali no.

Per avere il via libera è necessario essere «deforestation-free», e cioè non aver contribuito alla deforestazione. Le aziende dovranno garantire alle autorità nazionali che i prodotti seguano le nuove regole, le autorità a loro volta potranno effettuare ispezioni e acquisire informazioni come l’esatta coordinata geografica di produzione, in modo da verificare i rischi di deforestazione, attraverso un sistema digitale accessibile anche pubblicamente. La proposta iniziale di Bruxelles riguarda un preciso paniere: olio di palma, soia, cacao, caffè, carne bovina e legno.

Cosa aspettarci ora

A fine giugno i governi europei, riuniti in Consiglio, hanno approvato la loro posizione negoziale; la stessa cosa farà l’Europarlamento a metà settembre, e a quel punto partiranno i negoziati interistituzionali (il “trilogo”) per poi approvare la versione definitiva delle nuove regole europee sulla deforestazione. Quali cambiamenti possiamo aspettarci? Greenpeace, che fa parte della coalizione “Insieme per le foreste”, individua tre lacune nella proposta iniziale. La prima riguarda il ventaglio di prodotti da considerare, che andrebbe ampliata.

La stessa commissione Ambiente dell’Europarlamento, che si è espressa sul dossier prima del voto autunnale in plenaria, ha chiesto di includere anche la gomma, il mais, la carne di pollo, maiale, pecora e capra. Un altro punto è l’estensione dei vincoli anche agli investimenti finanziari: le associazioni ambientaliste, così come la commissione Ambiente, vorrebbero che anche gli investimenti delle istituzioni finanziarie europee escludessero progetti e società implicati nella deforestazione.

I governi e Cingolani

C’è poi un ultimo punto, ed è cruciale. «Se le regole considerano solo le foreste, ma non altri ecosistemi altrettanto importanti, come le torbiere, le savane e le zone umide, lo sfruttamento non farà che spostarsi in altre aree altrettanto importanti per la biodiversità del pianeta», spiega Martina Borghi di Greenpeace. «È già successo in Amazzonia, dove il cerrado brasiliano che è la savana più ricca di biodiversità del pianeta è stata distrutta per far posto a coltivazioni di soia per mangime».

Il governo italiano ha avuto l’opportunità di spingere per una normativa più efficace e di ampio respiro, ma «ha avuto posizioni molto blande oppure non è proprio intervenuto», dice Borghi, che una decina di giorni prima del fatidico Consiglio Ue sul tema si è presentata dal ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani con in mano la statua di un tucano e una motosega.

«Cosa sceglie?», ha chiesto provocatoriamente. Cingolani, colto alla sprovvista, ha optato per il tucano, cioè la difesa della natura. Ma la strada è ancora lunga, e «tra i paesi scandinavi c’è chi punta a far slittare il dossier alla presidenza di turno svedese per poi annacquarla». La proposta di Bruxelles è arrivata sotto la buona stella della presidenza francese, fino alla fine del 2022 a guidare sarà Praga. Poi tocca a Stoccolma. I tempi dei negoziati possono rivelarsi determinanti.

© Riproduzione riservata