Philippe Lamberts, figura chiave dei Verdi in Europa, è uomo di lotta e di governo. Di governo perché copresiede il gruppo all’Europarlamento, e lavora perché la sua forza politica cresca anche in Italia. È stato lui a lavorare al dialogo col Movimento 5 stelle, di cui una parte è confluita nel suo gruppo.

C’è lui oggi dietro la tessitura per una nuova forza verde in Italia, di cui Beppe Sala «può essere il co-leader», ed Elly Schlein figura ideale per affiancarlo nell’impresa. Ma è anche uomo di lotta: assieme ai Verdi, si è opposto a questa riforma della politica agricola comune che oggi viene approvata all’Europarlamento.

Ma non con il suo voto: assieme agli ambientalisti, ai Fridays for Future, ai ragazzi che si sono mobilitati nelle piazze, social compresi, al grido di “vote this cap down!”, i verdi questa cap la bocciano di netto.

Perché la versione finale della riforma della politica agricola comune (pac) è indigeribile?

Perché dà delega agli stati membri di definire che cosa sia “green”, il che è paradossale visto che di solito quando i governi vanno in direzione verde è perché la Commissione e l’Europarlamento li trainano in quella direzione. Se invece da queste istituzioni europee arriva il messaggio: «Che il trenta per cento sia green! Ma decidete voi cosa è green», va a finire che gli stati chiamano verdi cose che non lo sono, senza alterare la solita logica che è quella di produrre il più possibile. Di fatto, l’Europa con questa Pac continua a favorire il grande agrobusiness invece degli agricoltori. 

Come si spiega questa direzione politica?

Dall’Europarlamento avevamo esortato la Commissione a riscrivere completamente questa riforma, se Bruxelles non lo ha fatto è anche perché sa che Copa-Cogeca, la lobby dei grandi agricoltori, è molto forte. E il ruolo di questa lobby non si fa mica sentire solo a destra, sa: Paolo De Castro è del Pd, dei socialdemocratici, non è neppure di destra… Ciò mostra quanto Copa-Cogeca riesca a influire. Lo vedo anche nel mio paese, il Belgio, e nelle Fiandre in particolare: il ramo locale di questa lobby riesce a condizionare fortemente le scelte dei politici.

Dall’altra parte però c’era una massa critica: i Fridays e tutto il mondo ambientalista.

So che nella società tanti hanno chiesto che questa pac fosse rivista: dal mondo dei consumatori, agli agricoltori biologici, alla Confédération Paysanne… Ma questo tipo di forze sociali non ha fatto pressioni a sufficienza su governi ed europarlamentari succubi degli interessi dell’agrobusiness. Bisogna cambiare gli equilibri di potere così da poter cambiare anche la Pac. So che il tema “Pac” risulta ancora arcano a una larga fetta di opinione pubblica. Metto in conto che al momento alcune battaglie si vincono, altre vanno perse.

La stessa von der Leyen non ha voluto condurre la battaglia sulla Pac perché la riteneva troppo difficile da vincere, voleva leggi sul clima, obiettivi climatici, un recovery all’insegna del green… E quindi ha messo in conto di perdere sulla Pac. Il problema è che questa Pac che è andata al voto oggi mette in discussione l’intero green deal. 

Come spiega a Greta e ai ragazzi che questa Europa non li ascolta? 

Ai ragazzi che scendono in piazza per il clima ho da dire tre cose. Primo, i politici non sono tutti uguali. Su questa Pac c’era una maggioranza a favore, ma c’è anche una minoranza che è rimasta contro: non tutti sono nelle mani del grande business. Secondo: non smettete di impegnarvi in politica! Si può esser tentati di dire, ok, lascio stare, tanto nulla di buono arriva dalle istituzioni democratiche. Non è così, e soprattutto, se non vi curate della politica, lei in qualche modo continuerà a occuparsi di voi, e non necessariamente nel modo che desiderate. Continueremo a lottare. Terzo punto: la Commissione europea ha ancora la possibilità di rivedere la Pac.

La partita non è ancora chiusa?

Vede, se si mantiene questa Pac, allora non è possibile realizzare gli obiettivi green fissati dall’Ue stessa. Nell’accordo sul bilancio è chiaro che il trenta per cento di esso deve essere speso per obiettivi climatici. Per far convivere questa Pac con quel vincolo, ci sono solo due opzioni: cambiare la Pac, quindi intervenire sulle politiche, oppure travestire la realtà raccontandola per quel che non è. Cioè chiamare tutto “verde”, e fare un greenwashing spregiudicato; ma già allo stato attuale la Corte dei conti europea ci ha messi in guardia perché i criteri per qualificare quali spese siano green sono stronzate, sono troppo laschi per essere credibili. 

L’Unione europea fa greenwashing?

Da una parte c’è un vero cambiamento, perché mai con José Barroso o Jean-Claude Juncker avremmo potuto vedere un green deal, non è tutto washing né tutto da buttare. Ma alla consapevolezza che un cambiamento, per il clima, è necessario, si accompagnano le resistenze dei grandi interessi che si sentono minacciati da quel cambiamento. Siccome però nessuno può più negare il cambiamento climatico, allora le lobby si fingono verdi ma non mollano le leve del potere. Così vengono travestite da verdi cose che non lo sono.

Francia e Italia sembrano allineate perché nucleare e gas risultino verdi nella cosiddetta tassonomia. Qual è il ruolo dell’Italia, e del governo Draghi, in tema green (e greenwashing)? 

Se parliamo di governi, i governi italiani non sono mai stati granché verdi, e di certo non lo è Draghi. Per carità, è stato un grande presidente della Banca centrale europea. Ma la questione green non gli interessa davvero. Il vostro premier si inserisce pienamente della tradizione neoliberista produttivista. Posso convenire che sia competente, ma non è un premier verde. Non è green lui, né lo sono le figure chiave del governo che hanno in carico queste tematiche. Non mi sorprende che Emmanuel Macron e Mario Draghi condividano quindi una strategia comune: non è verde neppure Macron, dunque l’alleanza è, come dire, naturale. L’Italia non è verde per quel che riguarda i suoi governi. Ma ci sono importanti movimenti nati in Italia, penso a quello per l’acqua pubblica, all’esperienza di slow food… Il terreno è fertile, per i verdi, nel vostro paese.

I Verdi in Europa decollano. E in Italia?

La debolezza verde nel vostro paese è per me motivo di grande cruccio e dispiacere. Dopo una sparuta partecipazione in un esecutivo, da allora i Verdi italiani sono rimasti stagnanti attorno al due per cento. Questo non è soddisfacente. E non si può dar la colpa al sistema elettorale: anche quando siamo emersi in paesi come Francia o Belgio, siamo nati piccoli. Ma non siamo rimasti piccoli per qualcosa come quarant’anni. Bisogna assolutamente che noi Verdi europei possiamo contare su una grande forza italiana. Le persone che possono portare avanti l’agenda green esistono, ma dobbiamo coalizzarle in una forza politica che possa raggiungere risultati migliori di quelli attuali. 

Sta pensando a una nuova formazione?

Penso che la maggior parte delle green-minded people, dei personaggi che pensano verde, sono ancora fuori dall’attuale partito. E io sono sempre stato aperto a chi pensa verde. Bisogna unire queste forze, coalizzarle. Stiamo cercando di costruire una forza alternativa inclusiva.

Avete acquisito dei transfughi del Movimento 5 stelle, era quello il piano all’inizio?

Parte di quel movimento era verde, ma non tutti. I cinque stelle hanno molte facce, a volte contraddittorie. Sono felice di avere nuovi colleghi di gruppo ma la sfida riguarda anche altri.

Beppe Sala potrebbe essere il leader di questa nuova forza?

Potrebbe, sì. Sa che noi Verdi in Europa abbiamo la copresidenza, un uomo e una donna. Lui è ovviamente un leader. Stiamo lavorando con lui e con altri per rendere più forti i Verdi in Italia: questo ci renderà più forti anche in Europa.

Manca però la co-leader donna. Quali figure secondo lei possono essere un riferimento?

Posso dirle che mi piacerebbe che Elly Schlein accettasse di prender posizione per una forza come questa. Lei ha in mente qualcosa di rossoverde, ma io penso che prima di fondersi bisogna posizionarsi. Almeno qui in Europa, dove ad esempio il Pd e i socialdemocratici questa Pac la digeriscono, noi Verdi no. E noi Verdi non ci occupiamo certo solo di clima: la giustizia sociale è un tema chiave, per la nostra forza politica.

In Italia si discute sul futuro prossimo di Draghi, se al Quirinale o ancora come premier. Lei ha una sua idea sul tema?

Per quel che so, in Italia i principali poteri del presidente della Repubblica si esplicano in caso di crisi: il Quirinale è cruciale come arbitro finale, ma non governa. Chiaramente non sta all’Europa decidere il vostro calendario istituzionale, quel che posso dire è che Draghi è un fattore importante nella ricostruzione della fiducia in Italia, e nell’Italia, dopo anni di governi Berlusconi, Renzi, M5s-Lega. La credibilità di palazzo Chigi era compromessa. Se vogliamo una Europa più solida serve più trust, più fiducia in paesi come l’Italia. Io detesto quando i ministri di paesi frugali parlano degli italiani come di un popolo di pigri e corrotti, e soprattutto: io so che i frugali vogliono che l’esperienza di indebitamento comune rimanga una eccezione, mentre mi ritengo tra quelli che si battono perché questa esperienza sia il prototipo, il primo caso di una lunga serie. Ma perché ciò accada, deve avere successo. E Draghi al governo può contribuire a questo. Non userà quei soldi con spirito verde, ma li userà correttamente perlomeno.

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