Il Covid ha insegnato che con la condivisione delle informazioni mediche si possono ottenere risultati importanti in breve tempo. Così l’Unione europea vuole mettere in rete tutte le cartelle sanitarie entro il 2029. Ma riuscirci non è facile: bisogna superare le resistenze sovraniste e risolvere i problemi di privacy e sicurezza
La pandemia da Covid-19 ha rappresentato una svolta senza precedenti nell’uso e nella condivisione internazionale dei dati sanitari. Di fatto, la rapidità con cui i primi ceppi del virus sono stati sequenziati e messi a disposizione della comunità scientifica ha permesso lo sviluppo dei vaccini in tempi record.
I database aperti e la collaborazione fra laboratori, università, aziende farmaceutiche e istituzioni sanitarie sono stati l’esempio concreto di come la scienza, sostenuta da un accesso tempestivo e condiviso ai dati, possa affrontare sfide globali. Ora che è passata l’emergenza, che ne è stato di quell’esempio? C’è stato davvero un cambiamento duraturo nelle pratiche di ricerca e gestione delle informazioni sanitarie, aprendo così la strada a una nuova cultura di condivisione e collaborazione scientifica?
In realtà, alcuni segnali fanno pensare che la lezione sia stata dimenticata in fretta. Realtà come GenBank (database pubblico di sequenze genetiche gestito dal National center for biotechnology information degli Stati Uniti) o il Registro europeo dei tumori non vengono più aggiornati con la stessa frequenza. Alcune aziende farmaceutiche sono tornate a strategie competitive. Ci sono sistemi nazionali, per esempio in Francia o in Germania, che hanno adottato regole più restrittive rispetto all’uso dei dati sanitari anonimi.
Ma sarebbe riduttivo parlare solo di arretramento. La consapevolezza che gli elementi sanitari siano una risorsa strategica, capace di accelerare scoperte e rendere i sistemi più solidi, si è ormai radicata nella cultura politica e scientifica europea.
Dati sanitari europei
È in questo contesto che l’Unione europea ha lanciato da qualche mese lo Spazio europeo dei dati sanitari (Ehds). Non è solo un contenitore di buone intenzioni, ma una vera infrastruttura regolata per due usi distinti. Uno primario, riguardante cioè l’accesso dei cittadini alle proprie informazioni sanitarie, e uno secondario, utile al riutilizzo dei dati per ricerca, innovazione e politiche pubbliche.
È su quest’ultimo punto che si gioca la partita più delicata. Miliardi di cartelle cliniche, referti e dati genetici potrebbero essere trasformati presto in materia prima per la scienza, senza sacrificare il diritto alla privacy.
Bruxelles ha fissato un traguardo netto: entro il 2029 ogni stato membro dovrà avere un piano operativo che renda effettivo questo sistema. La scadenza ha un valore politico oltre che tecnico. Significa che l’uso dei dati non potrà restare un terreno di sperimentazioni isolate, ma dovrà diventare un diritto europeo a tutti gli effetti.
L’obiettivo è duplice: consentire ai cittadini di accedere e controllare le proprie informazioni ovunque si trovino nell’Unione europea, con una sorta di “passaporto sanitario” e, al tempo stesso, permettere che enormi quantità di dati anonimi siano messe a disposizione della ricerca.
Secondo la Commissione europea i benefici economici potrebbero tradursi in oltre undici miliardi di euro di risparmi in dieci anni e in una crescita tra il 20 e il 30 per cento del settore digitale della salute. Ma al di là delle stime, la posta in gioco è politica e culturale, dal momento che passare da un mosaico di sistemi frammentati a un ecosistema comune può rendere la medicina europea più rapida, equa e integrata.
Esempi concreti
Per capire quanto il percorso sia realistico, conviene però guardare a tre iniziative che stanno già provando a dare sostanza allo Spazio dei dati. La prima è il progetto pilota HealthData@EU (Ehds2 Pilot), che negli ultimi anni ha testato concretamente come potrebbe funzionare la condivisione transfrontaliera delle informazioni cliniche.
Non si tratta solo di infrastrutture informatiche, ma di procedure comuni per scoprire dataset, valutarne la qualità, autorizzarne l’uso e garantire la sicurezza. In altre parole, un laboratorio dove si sperimenta la governance di un sistema che, senza regole uniformi, rischierebbe di essere solo un guscio vuoto.
La seconda iniziativa è Darwin Eu, la rete coordinata dall’Agenzia europea del farmaco che raccoglie e analizza i cosiddetti “dati real-world” provenienti da cartelle cliniche e registri sanitari per supportare le decisioni regolatorie sui farmaci.
Qui si vede con chiarezza come l’uso secondario dei dati possa avere un impatto immediato: migliorare la farmacovigilanza, rendere più veloci le valutazioni su sicurezza ed efficacia dei medicinali, rafforzare la capacità dell’Europa di essere autonoma nel controllo dei propri trattamenti. È un passo concreto per evitare che la ricchezza dei dati rimanga inutilizzata o, peggio, vada dispersa in archivi non comunicanti.
La terza esperienza cruciale è Tehdas (Towards the european health data space), un progetto che lavora più sul lato politico e normativo che su quello tecnico. Il suo compito è definire linee guida condivise, modelli di governance, criteri di qualità e di fiducia che possano essere adottati dagli Stati membri. Perché nessuna infrastruttura, per quanto solida, può funzionare senza regole trasparenti e senza garanzie che convincano i cittadini a fidarsi. Tehdas mette per certi versi il dito nella piaga: il vero capitale non è di fatto il dato in sé, quanto la fiducia di chi lo genera.
Velocità diverse
Questi esempi mostrano che lo Spazio dei dati dell’Ue non è più solo una promessa, ma un cantiere in movimento. Tuttavia, il cammino resta disseminato di contraddizioni. Da un lato, l’Europa rivendica la necessità di un approccio comune per competere con Stati Uniti e Cina, dove i colossi privati già accumulano enormi banche dati sanitari.
Dall’altro, i paesi membri procedono a velocità diverse: alcuni hanno infrastrutture digitali avanzate, altri faticano ancora a rendere accessibili online le cartelle cliniche.
Si pensi all’esempio virtuoso dell’Estonia, che è all'avanguardia nell'ambito dei dati sanitari digitali grazie a un sistema integrato che offre a tutti i cittadini un accesso sicuro e centralizzato alle proprie informazioni sanitarie tramite il portale e-Patient.
Con circa il 99 per cento dei dati sanitari digitalizzati, il paese ha sviluppato un ecosistema digitale che include prescrizioni elettroniche, cartelle cliniche digitali e un’infrastruttura di condivisione sicura dei dati attraverso la tecnologia X-Road (piattaforma estone per lo scambio sicuro di dati digitali tra enti pubblici e privati).
Limiti e potenzialità
Uno dei nodi principali della rivoluzione europea rimane però la questione della privacy. Anonimizzazione, pseudonimizzazione, consenso informato: sono tutte formule giuridiche che rassicurano sulla carta, ma che nella pratica devono resistere a pressioni economiche e rischi di sicurezza informatica crescenti.
Il limite del 2029 diventa dunque un momento cruciale che vale come banco di prova politico. Sarà il momento di capire se l’Europa avrà scelto davvero di fare dei dati sanitari una risorsa comune, capace di generare conoscenza e innovazione, oppure se avrà ceduto alle resistenze nazionali e alla paura di affrontare i nodi della governance.
L’illusione che basti la tecnologia non regge, perché senza fiducia pubblica, senza regole chiare di accesso, senza un controllo democratico sull’uso dei dati, lo Spazio europeo dei dati rischia di rimanere uno slogan.
Eppure, il potenziale è enorme. Se lo Spazio dei dati riuscirà a radicarsi, potremo guardare al Covid come a un’occasione in cui l’Europa ha capito che il bene più prezioso della salute digitale non sono i singoli database, ma la capacità di metterli in relazione in modo sicuro, equo e condiviso.
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