«Questa è l’unica domanda che mi mette davvero in imbarazzo», aveva ammesso a novembre il meloniano Nicola Procaccini, capogruppo dei conservatori europei, interrogato da Domani sull’ipotesi di Mario Draghi presidente del Consiglio europeo.

Il nome dell’ex premier è tornato in un retroscena di Repubblica che vedrebbe il presidente francese spingere per Draghi alla Commissione Ue. «Non è quello il piano», dice a Domani una fonte della delegazione francese all’Europarlamento.

Riferisce anche che il rumor non pare arrivare dall’Eliseo. Pure dall’entourage draghiano arrivano solo smentite su un’ambizione dell’ex premier alla Commissione Ue. Uno scenario con Draghi al Consiglio trova riscontri favorevoli tra più interlocutori, ma è ritenuto «volatile».

Le fibrillazioni in corso non ci dicono come andrà a finire – visto che il dado sarà tratto solo dopo le elezioni di giugno – ma cosa si sta muovendo in vista del 2024.

L’attività negoziale già ferve, e tocca tre figure per tre caselle chiave che si libereranno: oltre al nome di Draghi, lanciato sul palco dell’Ue in autunno dai popolari, c’è Ursula von der Leyen, il cui futuro politico prosegue, e c’è l’ex premier olandese Mark Rutte.

I posti che diverranno vacanti sono la presidenza di Commissione e Consiglio europeo, e la guida della Nato. Ci sarà ovviamente anche il vertice dell’Europarlamento da rinnovare – e Roberta Metsola come von der Leyen è ancora in campo – e ci sarebbero i socialisti, che hanno appena ottenuto la presidenza della Banca europea degli investimenti e che in teoria dovrebbero rivendicare un ruolo.

Si accontenteranno di Nadia Calviño appena piazzata alla Bei? Resusciteranno António Costa, il dimissionario premier portoghese? E che dire dell’Europa centrorientale che rischia di rimanere fuori dalla partita?

Nulla di questa fantapolitica è stabile finché in estate i capi di stato e di governo si chiuderanno in una stanza e avremo una loro fumata bianca. Oggi esporsi troppo significa rischiare di bruciarsi. Ma mai come ora i lavori fervono.

Il futuro di von der Leyen

L’attuale presidente di Commissione ha sorpassato tutti gli ostacoli interni che potevano impedirle il bis nel 2024. Inizialmente infatti il primo a far traballare questo scenario era stato il leader della sua famiglia politica, Manfred Weber, che dal 2021 ha avviato un’alleanza tattica con Giorgia Meloni dei conservatori europei.

Gli strattoni alla connazionale presidente tedesca hanno preso le forme di una guerra alla sua agenda verde assieme alle destre estreme, e hanno fatto sì – come Domani aveva anticipato già a dicembre 2022 e come poi è emerso pubblicamente – che Weber lanciasse segnali per una Metsola presidente di Commissione. Metsola incarna proprio l’alleanza Ppe-Meloni.

Per von der Leyen era pronta una exit strategy alla guida della Nato, e questa ipotesi non è formalmente esclusa, anzi la riesumano i cronisti che vagheggiano di un Draghi alla Commissione.

Di certo c’è che Jens Stoltenberg a luglio scorso ha rinviato di un altro anno la fine del suo mandato – creando quindi margini per le manovre del 2024 – oltre al fatto che von der Leyen stessa da tempo agisce in sintonia con la Casa Bianca; un filoatlantismo che talvolta supera in eccesso quello del Consiglio stesso.

Ma gli screzi con Weber sono stati arginati – e la strada per il bis nel 2024 è stata spianata – quando von der Leyen ha fatto sua la cooperazione con Meloni, il che probabilmente era dall’inizio il fine del leader Ppe e dei suoi spintoni.

La presidente di Commissione europea segue e asseconda Meloni in ogni sua iniziativa, dando adito così a una futura maggioranza ibridata coi meloniani. A settembre 2023, nel suo discorso sullo stato dell’Unione von der Leyen ha parlato da candidata in pectore, esordendo con un riferimento alle europee, e ridimensionando l’agenda verde.

Draghi e Rutte

Poco più di un mese dopo – era fine ottobre – Mark Rutte, preparandosi a liberare il posto di premier olandese, ha ammesso pubblicamente di gradire un futuro alla Nato: «Quel ruolo sarebbe molto interessante».

Frugale coi conti dei meridionali d’Europa, ma anche abile nella gestione dei rapporti con gli altri leader, Rutte entra per certo nel totonomi del 2024. Ci sarebbe poi un altro nome, lanciato alla ribalta dell’Ue proprio da von der Leyen e Weber nel giorno del discorso dell’anno di lei: il 13 settembre la presidente ha annunciato un incarico per Mario Draghi sul versante della competitività, e a ruota il leader Ppe ha tessuto le lodi dell’ex premier salva-euro.

In quella stessa fase, Draghi si stava posizionando sul versante europeo con interventi pubblici ed editoriali riguardanti le sfide dell’Ue; basti citare il suo discorso di luglio sull’eurozona al National Bureau of Economic Research o il suo parere su integrazione, sovranità e fisco europei pubblicato a inizio settembre sull’Economist.

Fonti vicine a Weber dicono in privato ciò che Antonio Tajani dice in pubblico: per la Commissione c’è von der Leyen in ballo. Un Draghi al Consiglio? Il punto è che è troppo forte e altri leader preferirebbero un presidente più debole, dice sempre la fonte weberiana fuori microfono.

Dal lato liberale francese, il piano per il Consiglio è «altamente volatile» finché non si può discutere prima della Commissione. A Bruxelles c’è prudenza, a Roma c’è già chi si esalta: Carlo Calenda ad esempio, o i renziani, che astutamente esprimono apprezzamento per un Draghi europeo «in qualunque ruolo», come ha fatto Nicola Danti.

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