Ursula von der Leyen cerca la riconferma in Europa, e a Mario Draghi non dispiace tornare protagonista anche in Italia. È qui che si incontrano.

La ribalta draghiana

Tra i due la relazione è sempre stata ottima, conferma l’entourage dell’ex premier. Ed è di comune accordo che la presidente della Commissione Ue ha chiamato in causa mister euro durante il suo discorso di questo mercoledì sullo stato dell’Unione. «Ho chiesto a Draghi – una delle menti economiche più brillanti d’Europa – di preparare un report sul futuro della competitività europea. Perché l’Europa farà whatever it takes per mantenere la sua competitività», ha detto.

In quell’istante Draghi era in vacanza, ma in questo caso la vacanza è pura contingenza, un’appendice dell’estate che passa: se si parla per metafora, l’ex presidente della Bce è in lizza più che mai. Chi è a lui più vicino si dice convinto che all’orizzonte non ci sia per Draghi la presidenza della Commissione, né quella del Consiglio europeo.

Come mai allora l’Europa chiama? Perché l’Italia risponda, dicono i bene informati. A Roma c’è già chi spasima, a cominciare dai centristi d’ogni conio: Carlo Calenda, Sandro Gozi, Mara Carfagna, Enrico Borghi, tutti esultano; se si tratta di Draghi, non c’è screzio interno che valga.

Mentre l’esperienza a palazzo Chigi si è logorata, l’ex Bce ha visto solo da lontano il Quirinale. Per il futuro quell’orizzonte non si è affatto eclissato. Ed è su quel dossier – poi rimasto incompiuto – che è stato collaudato il dialogo con l’attuale premier, Giorgia Meloni.

«La considero una buona notizia», ha commentato lei dopo l’annuncio di von der Leyen. «Può avere un occhio di riguardo». Oggi la leader di Fratelli d’Italia è alle prese coi conti (faticosi) e con l’economia (ostica). Draghi ha quel profilo da castigatore di spese che già nel 2011 ha portato a Chigi il suo amico Mario Monti; per ora torna in gran spolvero a Bruxelles.

È chiaro – e se non lo fosse, lo conferma l’entourage draghiano – che il «report» di cui parla von der Leyen non è certo una relazioncina. Servirà una squadra, si intratterranno rapporti, non è previsto un termine. E l’intervento fatto da Draghi a luglio negli Usa – la sua lecture al National Bureau of Economic Research – suona oggi quasi un manifesto politico, osserva chi conosce bene l’ex premier.

Cosa succede quando finiranno i soldi e l’esperienza di Next generation Eu? Quale futuro per uno spazio fiscale comune? È tutto lì, quella è la fantomatica agenda Draghi che nella scorsa campagna tutti citavano e nessuno possedeva.

Von der Leyen e il 2024

C’è da scommettere comunque che quando von der Leyen ha citato Draghi, pur nel vantaggio reciproco, abbia pensato anzitutto alla propria agenda 2024. Il «whatever it takes» e la «mente brillante» – insomma la credibilità draghiana – sono funzionali a rendere credibile l’operazione della presidente. Che ha trasformato lo State of the Union 2023 in un discorso per le europee 2024: gli europei «che si troveranno nella cabina elettorale» compaiono già nell’incipit dello speech.

Il discorso pronunciato da von der Leyen questo mercoledì mostra in controluce anche l’equilibrio interno trovato dal Ppe – la sua famiglia politica – in vista del voto di giugno. Da una parte infatti il leader dei popolari, Manfred Weber, non rinnega la vecchia “coalizione Ursula” e anzi ammicca ai socialisti e liberali, rasserenando così anzitutto l’opinione pubblica tedesca prima del voto; spostamenti troppo a destra farebbero scattare l’allerta Afd.

Al contempo però – a furia di strattonare la presidente – Weber ha ottenuto una agenda von der Leyen “ibridata”, slittata a destra.

Le spinte a destra

«Weber cercherà di ottimizzare il risultato elettorale del Ppe. In questa legislatura è dovuto andare a ruota delle sinistre, non vuole farlo nella prossima», è l’analisi che il meloniano Nicola Procaccini, capogruppo dei conservatori in Ue, consegna a Domani. È uno schema già sperimentato nel 2022: Weber ha utilizzato la sponda dei conservatori per imporre i propri nomi all’Europarlamento.

E von der Leyen, in tutto questo? Formalmente rassicura i socialisti, quando dice che «sul Green Deal manteniamo la rotta»: Weber in tempi non lontani ha preso di mira l’agenda climatica e ci si è accanito assieme all’estrema destra. Ma di fatto, la presidente smantella le ambizioni green: tutto il suo discorso è business first, è concentrato su una transizione che piace alle imprese. Trascura l’urgenza climatica e le inquietudini dei giovani.

A destra – in direzione di Meloni – von der Leyen si dirige anche sul tema migranti, proponendo di replicare il memorandum con la Tunisia – che si è subito rivelato un flop – addirittura con altri paesi. La visione della presidente è quella di una Ue sempre più allargata, ma non per questo più in salute: trascura integrazione e stato di diritto, facendo così l’ennesimo favore alle destre.

Mentre società civile, lavoratori, caro prezzi, finiscono da lei adombrati, von der Leyen si rivolge alla platea elettorale del Ppe – imprenditori e agroindustria – confermando così che il suo è un discorso da campagna 2024. Addirittura, la presidente propone «un rappresentante speciale dell’Ue per le Pmi che riferirà direttamente a me» e vuole che ogni atto legislativo sia “business proof”: «Faremo prima un controllo della competitività» con un board apposito (e qui torna tra le righe Draghi).

Già oggi, su dossier cruciali la Commissione trascura ong e società civile, mentre è pesantemente lobbizzata dalle imprese. Con l’agenda von der Leyen 2024, il disequilibrio cresce. La presidente si inventa in autonomia nuovi organi e iter; il tutto è funzionale a mantenere tra le sue mani – e sempre più a destra - l’Europa che verrà.

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