Il primo è stato Bettino Craxi, che nel 1984 si è candidato in tre circoscrizioni. Ma il vero campione del fenomeno delle pluricandidature è stato Silvio Berlusconi
Il primo fu Bettino Craxi che alle elezioni europee si candidò contemporaneamente in tre circoscrizioni, e raccolse un milione e mezzo di preferenze. Era il 1984 e il segretario socialista intendeva consolidare l’azione del suo primo governo nato da meno di un anno e rilanciare elettoralmente il Psi. Tra i leader dei partiti storici nessuno prima aveva osato tanto.
Le pluricandidature tuttavia sono un fenomeno politico ed elettorale successivo al 1989. Rispetto alle sparute esperienze precedenti la caduta del Muro, la vera svolta si ebbe dal 1994. Berlusconi cambiò tutto, sempre candidato e (quasi) sempre in tutte le circoscrizioni. Campione di preferenze sinora ineguagliato, con tre milioni di preferenze (1994 e 1999) raccolte candidandosi nell’intero territorio nazionale.
Se consideriamo le preferenze assolute ricevute gli altri segretari ed esponenti principali dei maggiori partiti, al secondo posto troviamo Matteo Salvini, il quale nel 2019 ha totalizzato 2,3 milioni di preferenze. Più distante il duo Andreotti-Bossi con oltre mezzo milione di consensi, anche se il fondatore del Carroccio li racimolò nelle due circoscrizioni nord. Chiude questa classifica Giorgia Meloni che alle scorse elezioni europee da candidata nelle cinque circoscrizioni ha ottenuto poco mezzo di mezzo milione di voti personali.
Preferenze ed elettori
Le elezioni europee si tengono in Italia dal 1979, con voto popolare, prima indirettamente dal 1958. Gli elettori e le elettrici possono esprimere fino a tre voti di preferenza, ma dal 1994 con obbligo di destinarle a candidati di genere diverso se le preferenze espresse sono più di una.
In generale, si registra una forte e costante diminuzione dei voti di preferenza espressi (sul totale disponibile) sul totale dei voti validi per i partiti. In effetti, i voti di preferenza a livello nazionale si sono notevolmente ridotti da circa il 35 per cento nel 1979 a poco più del 16 per cento nel 2019, ossia 20 punti in meno.
Un sesto degli elettori esprime almeno una preferenza. Per capire il ruolo dei leader è interessante osservare il peso dei capilista all’interno del partito (preferenze ottenute sul totale dei voti alla lista di appartenenza) e quello all’interno del gruppo di compagni di partito (preferenze ottenute sul totale delle preferenze a tutti i candidati dello stesso partito). Il rapporto partiti e leader è cruciale dunque, specialmente in un contesto ove il voto di preferenza implica una scelta “personale”.
Nei partiti storici il ruolo dei leader alle elezioni europee era più contenuto, sia perché esse arrivarono dal 1979, poi perché quelle consultazioni erano considerate di minore rilevanza e, infine, di conseguenza perché non sempre erano candidati. L’impronta di Berlusconi sulla distribuzione dei consensi all’interno di Forza Italia è stata determinante.
Quasi il 30 per cento è il carico del candidato maggiormente votato rispetto al totale della lista e oltre il 50 per cento sulle preferenze espresse. Una concentrazione di consensi su scala nazionale che ricalca la natura propritaria/personale del partito e il contributo della leadership centrale, la cui assenza, come nel 2014, fa crollare il primo candidato fino al 14 per cento sulla lista e al 30 per cento sulle preferenze nonché in valore assoluto.
Nel 2019 con la ricandidatura di Berlusconi il suo apporto sulla lista cresce nuovamente (26 per cento su lista e 36 per cento su totale candidati) anche al netto della candidatura di Antonio Tajani capolista nella circoscrizione.
Lega Nord e Bossi. Le preferenze al senatùr oscillavano tra un terzo (35 per cento) e quasi la metà (48 per cento) nel momento di massima personalizzazione. Salvini ha superato il fondatore della Lega nel 2014 raggiungendo il 54 per cento, a conferma della natura verticistica e personale del partito. Meno forte il dato del candidato sul totale dei voti di lista (19 per cento media) in virtù di una minore propensione degli elettori leghisti (e del nord in generale) ad esprimere preferenze personali.
Ragguardevole il dato di Salvini nel 2019: le preferenze recanti il suo nome hanno rappresentato un quarto dei voti al partito e quasi il 60 per cento dei voti di preferenza. Un vero partito del capo.
Il picco del 1994 (60 per cento), con la discesa in campo di Fini, per contenere la presenza di Bossi e Berlusconi, non rappresenta un’eccezione per il partito post-fascista Msi-An-FdI che ha registrato valori sempre superiori al 40 per cento quanto a preferenze del primo candidato su tutti gli altri, e di oltre un terzo quale peso nei confronti della propria lista. Il dato di Meloni è quello più basso rispetto alla media del 1994-2019 per il partito e più basso in assoluto nella storia del Msi/An/FdI.
L’idiosincrasia degli elettori comunisti ad esprimere preferenze “personali” e la tendenza del partito a indicare i candidati da sostenere, ha evitato nel Pci/Pds/Ds sistematici picchi di concentrazione di voti attorno a un solo candidato, sebbene si siano registrati significativi valori medi (40 per cento). Analogamente, il candidato maggiormente votato pesa per circa il 22 per cento sul totale dei voti alla lista e meno del 40 per cento di tutte le preferenze indicate.
I valori delle preferenze raccolte dal candidato più votato nel caso del Pd, e prima dell’Ulivo, indicano cifre relativamente e comparativamente contenute (26 per cento su totale preferenze e 18 per cento su voti di lista), anche in virtù di una profonda frammentazione generata da candidature correntizie. La presenza di capilista diversi in ciascuna circoscrizione ha contribuito a generare un risultato comparativamente basso in termini di impatto sul totale di preferenze e voti di lista.
Il Movimento 5 stelle evidenzia valori molto bassi circa il peso dei capilista, sia rispetto ai voti al partito (5 per cento) che sul totale delle preferenze raccolte da tutti i candidati (15 per cento). Conferma del voto al “simbolo”, della debole penetrazione sociale dei candidati e, infine, della mancanza, fino ad ora, del traino della candidatura di un leader nazionale.
Schlein e Meloni
La sfida delle elezioni europee del 2024 potrebbe vedere per la prima volta una sfida diretta tra tutti i leader dei principali partiti. Recenti articoli di giornale hanno avanzato l’ipotesi di una candidatura di Elly Schlein in tutte le circoscrizioni. La sua presenza quale capolista del Partito democratico avrebbe il vantaggio di rafforzare la leadership e il controllo sul partito nonché di tacitare alcune fazioni riottose ad accettare il nuovo corso.
L’assenza del capolista/segretario, come visto, ha penalizzato la concentrazione di consensi sui capilista ed esteso il carattere correntizio dei dem. Se tale ipotesi si realizzasse, si potrebbe ingenerare un effetto a cascata sugli altri segretari. Il recordman delle europee del 2014 – Salvini – sarebbe costretto nella morsa tra accettare la sfida candidandosi, ma con il rischio concreto di svilire il dato scorso (oltre due milioni di preferenze) ovvero lasciare il partito senza il suo traino elettorale spesso importante.
Giuseppe Conte dal canto suo affronta le europee con la consapevolezza che il marchio M5s è storicamente più solido e trascinante dei suoi candidati, anche per la loro relativa minore presenza sociale; perciò dovrà valutare se mettere il proprio nome accanto alla lista tentando di avere un effetto benefico sulla lista e quindi di porre il sigillo sul controllo del partito, chiudendo definitivamente ad altre ipotesi.
Infine, la presidente del Consiglio, se uno o più dei suoi avversari si candidasse, non potrebbe non accogliere il guanto di sfida: da un lato polarizzando contro Schlein, ma anche all’interno con Salvini; dall’altro potrebbe mostrare di essere cresciuta in termini di consensi personali rispetto al 2014. Insomma, le prossime elezioni europee saranno un banco di prova per gli equilibri di Bruxelles, ma anche per gli le dinamiche tra maggioranza e opposizione e di rapporti di forza all’interno dei partiti.
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