Eccoci di nuovo insieme, Europa!
Siamo alla quarantaseiesima edizione dello European Focus!
Sono Anton Semyzhenko, il caporedattore di questa settimana, e scrivo da Kiev.
Qui nella redazione di Babel, che è il sito di notizie ucraino per il quale lavoro, la squadra è unita ma piccola. Siamo in pochi; eppure c'è una nostra collega giornalista che dedica quasi la totalità del suo tempo a un tema specifico: la giustizia in tempo di guerra e nel dopoguerra.
Oksana scrive dei tribunali e dei casi di genocidio, intervista gli avvocati per i diritti umani, e grazie al suo lavoro di ricostruzione giornalistica può fornire molte ragioni per le quali l’impegno legale aiuta l’Ucraina nella sua lotta contro l’invasione russa. Ciò ancor più adesso che è appena tornata dall’Aia.
Mentre parlano le canne dei fucili, i bombardieri sorvolano i cieli e non si vede la fine delle ostilità, l’ordine flemmatico delle aule di tribunale può sembrare fuori luogo. Ma alla fine è qui che finiscono le guerre, quando i giudici esplorano da cima a fondo le violenze per giungere al nocciolo delle decisioni malvagie e individuare i responsabili.

Come dice la giornalista di guerra di lunga data Janine di Giovanni, il sentimento di giustizia che ne deriva segna il lieto fine di una guerra o di un regime ostile.
Un finale infelice può portare ancor più dolore in futuro.
Ottenere giustizia è un lavoro duro. In questa newsletter i miei colleghi della Macedonia del Nord, dell’Estonia, dell’Ungheria, della Spagna e della Francia raccontano quanto ciò sia difficile per le loro società.
Anton Semyzhenko, caporedattore di questa settimana


IO, NATO NELLA POLVERIERA DEI BALCANI, NON HO PACE

Skopje, 2013: l’ufficiale di polizia macedone Johan Tarculovski, condannato per crimini di guerra dall’Aia, al suo ritorno è stato accolto come un eroe, e a spese del governo. Foto di Siniša-Jakov Marusic

SKOPJE - Sono nato negli anni Ottanta nei Balcani, e tutta la mia vita è stata influenzata dalla psicosi della guerra e del conflitto etnico, nonché dai miei tentativi di affrontare la situazione, di perseverare e di rimanere, per così dire, una persona “normale”.
Tutto è iniziato quando avevo circa dieci anni. Ho visto l’occidente lottare per evitare lo spargimento di sangue tra le piccole nazioni balcaniche che litigavano.
Prima la guerra in Slovenia, poi la Croazia e il bagno di sangue in Bosnia. Dopo è arrivato il turno del Kosovo, separato dal mio paese da un solo confine.
Puntualmente, nel 2001 la guerra è arrivata in Macedonia.
Massacri, stupri, crudeltà e tortura, troppi per poterli ricordare, troppo da sopportare.
È diventato tutto chiaro mentre i leader locali firmavano gli accordi di pace e stringevano a malincuore la mano ai nemici come se fossero dei bambinetti costretti dai propri genitori a fare ammenda: quella non era la fine. La pace non era tornata.
Si trattava solo di un’assenza di guerra.
La riconciliazione, ci hanno detto, era la chiave. Riunite le persone, parlate apertamente di quello che è successo e riaccenderete l’empatia umana. Individualizzate la colpa e fate pagare chi ha commesso i crimini, e la speranza ritornerà.
Mentre i paesi consegnavano i propri criminali di guerra al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, è accaduto il contrario. Gli ex signori della guerra sono diventati eroi popolari. Sono diventati “celebrità del Tribunale penale”: sono stati considerati come martiri dalle masse. Arrivati a quel punto, era chiaro che la guerra ci aveva resi tutti dei perdenti. Se anche la nostra fazione avesse vinto, avremmo perso i nostri cari, saremmo divenuti dei rifugiati, saremmo stati derubati del nostro futuro e saremmo stati sfregiati dalla paura e dalla diffidenza.
I successori ideologici di quei signori della guerra, diventati leader, ci hanno convinto che il popolo era l’unica vittima e che un atto d’accusa contro il nostro “amato protettore” o il nostro “combattente per la libertà” costituiva una cospirazione contro tutti noi.
Nessuna nota edificante alla fine. Solo questo pensiero. La guerra come manifestazione fisica può anche durare pochi anni. Ma la guerra come psicosi personale o collettiva può durare per generazioni. Abbiamo rinchiuso l’inferno della guerra nelle nostre teste e stiamo aspettando il secondo round.
Sinisa-Jakov Marusic scrive di giustizia di transizione per Balkan Insight


I SEGNI DELL'OCCUPAZIONE RUSSA

Skopje, 2013: l’ufficiale di polizia macedone Johan Tarculovski, condannato per crimini di guerra dall’Aia, al suo ritorno è stato accolto come un eroe, e a spese del governo. Foto di Siniša-Jakov Marusic

TALLINN - «Con ciò l’Estonia legalizzerà per sempre la costante occupazione russa. Non c’è ragione di cedere così il 5,2 per cento del territorio, delle acque e dello spazio aereo dell’Estonia».
È quel che ha dichiarato Mart Helme, uno dei leader del partito estone di estrema destra Ekre, e che è stato anche ambasciatore del paese a Mosca negli anni Novanta.
Ekre ha come missione la rivendicazione delle aree dell’Estonia orientale che sono diventate parte del paese così come è stato ridefinito dopo un trattato del 1920 con la Russia.
In seguito all’occupazione sovietica dal 1944 al 1991, gli estoni sono rimasti con il 94,8 per cento del proprio paese, mentre le aree di Jaanilinn e Petseri sono diventate parte della Federazione Russa. Suona quantomeno ironico se non paradossale che quando era ambasciatore proprio Helme abbia fatto parte del gruppo di negoziatori che ha accettato di rinunciare formalmente al 5,2 per cento dell’Estonia.
Gli elettori di Ekre perdoneranno l’ipocrisia, ma non la debolezza. La cicatrice delle terre perdute, probabilmente, perseguiterà la politica estone ben oltre il nuovo trattato ancora da ratificare. In politica ci sarà sempre spazio per parlare di un’occupazione irrisolta.
Herman Kelomees è giornalista di Delfi


L'UNGHERIA E I CRIMINI DI REGIME RIMASTI IMPUNITI

Béla Biszku davanti al tribunale nel 2014; è morto due anni dopo, in libertà. Foto di Ákos Stiller/Hvg

BUDAPEST - La responsabilità riguardo ai crimini commessi sotto il comunismo e riguardo alla repressione che è seguita alla rivoluzione antisovietica del 1956 è ancora una faccenda delicata, nel mio paese, l’Ungheria.
Al momento del cambio di regime nel 1989, la situazione era chiara: la chiave per una transizione pacifica era risparmiare i colpevoli. Nel 1990 Gábor Péter, il temuto comandante della polizia politica comunista pre-1956, la ÁVH, era ancora vivo. Lo stesso vale per l’ex ministro degli Interni Béla Biszku, uno dei principali responsabili delle repressioni post rivoluzionarie.
Anche Ferenc Vida, il giudice che ha condannato a morte Imre Nagy, il primo ministro del governo rivoluzionario, era ancora vivo. In quel periodo non erano legalmente responsabili delle proprie azioni.
Decenni dopo, Béla Biszku è stato processato secondo il diritto internazionale. I processi, iniziati nel 2010, sono terminati senza una condanna definitiva. Nel marzo del 2016 Biszku, all’età di 95 anni, è morto in libertà.
Se fosse vissuto ancora, chissà se avrebbe ricevuto una vera condanna. Il motivo di questo dubbio è che la Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2008 ha assolto uno dei pochi uomini condannati in Ungheria per aver sparato sulla folla nel 1956, il capitano János Korbely.
Secondo il verdetto della corte, le azioni di Korbely non sono state un crimine contro l’umanità, ma omicidio colposo. Quest’ultimo era caduto in prescrizione, per cui Korbely non poteva essere condannato.
In Ungheria c’è sicuramente una domanda di giustizia nei confronti degli ex leader. Ciò è dimostrato dai processi delle persone accusate di crimini contro l’umanità per i colpi sparati a Salgótarján, a Mosonmagyaróvár, a Tata e alla stazione di Budapest Ovest, che hanno ricevuto molta attenzione pubblica.
Ma dopo decenni di inefficacia (solo i processi di Salgótarján e di Tata si sono conclusi con delle condanne) le persone sono diventate disilluse e stanche del problema, e preferiscono non rivangare il passato. Dopo 34 anni dal cambio di regime non c’è più quasi nessuno ancora in vita da condannare per i crimini commessi sotto la dittatura comunista.
Balazs Lenthar, giornalista e storico, scrive per Hvg


I LIMITI DELLA TRANSIZIONE DA FRANCO A OGGI

MADRID - La transizione spagnola dalla dittatura alla democrazia è stata in gran parte non violenta, ma molte questioni irrisolte stanno riemergendo nel dibattito pubblico, specialmente riguardo al significato della giustizia.
Ne parliamo con Lucía Payero López, docente di filosofia del diritto all’università di Oviedo (in foto).
Nel 1975 il dittatore Franco muore. La Spagna inizia la sua transizione verso la democrazia. Perché è stato necessario mettere in atto una transizione invece di cercare giustizia formale per il passato?
La transizione spagnola è stata fortemente condizionata da coloro che hanno portato avanti il processo: gli eredi della dittatura.
Ci sono state alcune concessioni alla democrazia e alla giustizia di transizione, ma non sono state particolarmente ampie, e l’idea era quella di mantenere sotto protezione gli ex intermediari del potere. Per esempio, la legge sull’amnistia: era stata progettata per indagare sulle vittime durante la dittatura, ma i colpevoli l’hanno usata anche per coprirsi. Questo ha impostato la direzione della transizione spagnola.
All’estero si parla spesso della Spagna come di un modello di transizione pacifica. Sono piuttosto critica nei confronti di quella visione idilliaca, ma i protagonisti politici della transizione hanno fatto quello che poteva essere fatto in quel momento. Non si è trattato di una politica della “terra bruciata”, ed è importante conoscere l’equilibrio di potere in quel momento.
Forse, criticare la transizione dal punto di vista attuale è un po’ esagerato. Ma penso anche che in oltre quarant’anni si sarebbe potuto fare di più.
Cosa esattamente?
Ci sono alcune questioni in sospeso: per esempio, una Commissione per la verità. La giustizia di transizione ha tre dimensioni: verità, giustizia e riparazione. Pensiamo molto alla dimensione della giustizia, a punire i colpevoli, ma la dimensione della verità, in Spagna, non è stata adeguatamente sviluppata in quel momento. Non c’è mai stato un dibattito serio al riguardo.
La transizione spagnola è un modello per altri conflitti?
Non penso si tratti di un modello nel senso di qualcosa di degno di essere imitato. Quando si parla della transizione spagnola come di un processo esemplare, mi sembra che si tratti di un discorso fallato sull’uguaglianza tra le parti, del tipo: «Le atrocità sono state commesse da entrambe le parti» o «la cosa migliore è dimenticare tutto».
Alicia Alamillos scrive di Esteri per El Confidencial


IL NUMERO DELLA SETTIMANA - 19

PARIGI - Il 3 gennaio 2021 l’esercito francese ha bombardato un gruppo di uomini riuniti nei pressi del villaggio di Bounti, nel Mali centrale. Erano tutti «terroristi» secondo i funzionari francesi, la cui presenza militare nel paese saheliano è durata dal 2013 al 2022.
Un’indagine dell’Onu, pubblicata tre settimane dopo l’attacco, ha respinto una simile ipotesi. Delle 22 persone uccise, 19 erano civili che prendevano parte a un matrimonio. Gli altri tre erano uomini armati appartenenti al Katiba Serma, un misterioso gruppo jihadista.
La Francia ha sempre contestato il rapporto dell’Onu, sostenendo di aver abbattuto «combattenti jihadisti» identificati dopo aver condotto una lunga «operazione di intelligence».
Léa Masseguin fa parte della redazione Esteri di Libération


Qual è la tua impressione su questo tema? Ci piacerebbe riceverla, alla mail collettiva info@europeanfocus.eu se vuoi mandarcela in inglese, oppure a francesca.debenedetti@editorialedomani.it
Alla prossima edizione! Francesca De Benedetti


(Versione in inglese e portale comune qui; traduzione in italiano di Marco Valenti)

© Riproduzione riservata