«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre»: il monito di Primo Levi è quanto mai attuale per dare un senso al Giorno della Memoria.

È stata la Risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a stabilire – nella riunione plenaria del 1° novembre 2005 – che il 27 gennaio di ogni anno sarà dedicato a ricordare la Shoah. C’era stato un altro 27 gennaio nel 1945, quando le truppe sovietiche della 60ª Armata del 1º Fronte ucraino, impegnate nell’operazione Vistola-Oder dirette in Germania, entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz: per la prima volta i ritrovamenti dei forni crematori e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono l’orrore del genocidio nazista.

Oltre ad Auschwitz, nel Giorno della Memoria si ricordano gli altri campi di detenzione e sterminio sparsi in Europa, come Treblinka, Sobibor, Dachau e Bergen-Belsen. L’Italia fascista fornì collaborazione al disegno nazista varando le leggi razziali e costruendo campi di concentrazione e di deportazione come quelli di Fossoli (Modena), della Risiera di San Sabba (Trieste) e di Bolzano (Alto Adige).

La storia ha ricostruito l’Olocausto di sei milioni di ebrei, al cui destino di annientamento finirono accomunati altri milioni di persone ritenute dai nazisti “indesiderabili” o “inferiori” per motivi politici o razziali come i romanì, i polacchi e altre popolazioni slave, i prigionieri di guerra, gli oppositori politici, i dissidenti religiosi come i testimoni di Geova ei pentecostali, i neri europei, gli omosessuali e le persone con disabilità fisica e mentale.

Quella decisione giunta dalla comunità internazionale 60 anni dopo era stata necessaria per fermare l’assurdità delle tesi negazioniste – che cominciarono ad essere incriminate – e come monito di fronte ai nuovi stermini che si ripetevano nella deriva del disordine globale. Ci sono vari modi per ricordare il Giorno della Memoria, e non è affatto un esercizio vano di fronte allo spirito dei tempi.

C’è un’umanità di “stranieri” ancora sofferente e trascurata che viene respinta in nome della difesa dei confini e della minaccia di “sostituzioni etniche”, e ci sono nuovi leader irresponsabili che, dall’Ucraina a Gaza e in altri conflitti dimenticati, compiono massacri e distruzioni per annientare i popoli, colpendoli anche nel distruggere le loro case: è la pratica che ora alle Nazioni Unite si vorrebbe incriminare definendo il crimine di «domicidio».

Un momento fondativo 

In questa ricorrenza si preferisce lasciare spazio alle testimonianze dei sopravvissuti, alla ricostruzione storica e letteraria, che certamente hanno la più autentica sensibilità nel richiamare uno dei momenti più bui dell’umanità. Tuttavia si può dare un contributo alla memoria con un’altra chiave interpretativa, che non è meno importante nel segnare la volontà della comunità dei popoli di fermare le atrocità delle guerre e delle discriminazioni.

Si tratta del percorso del diritto internazionale, che proprio partendo da quelle tragedie ha compiuto passi non facili, anzi è stato assolutamente rivoluzionario nell’affermare principi e valori universali che ancora possono farci da guida per evitare gli orrori dell’umanità. Dopo la tragedia della Shoah, uno dei primi passi compiuti dai giuristi e dalla volontà delle Nazioni fu innanzitutto volto a superare l’indeterminatezza con cui nessuno poteva ancora definire la complessità e la profondità di quella tragedia.

Persino Winston Churchill nel presentare nel 1941 la Carta Atlantica non poté che definire le azioni commesse dal regime nazista come un “crimine senza nome”. Ritornarono di attualità gli studi sullo sterminio degli armeni (1915-1916, Turchia) condotti dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, che per la prima volta narrando la tragedia ebraica nel libro Axis Rule in Occupied Europe (1944) concepì la parola «genocidio»: era la combinazione della parola greca ghénos, stirpe, genere, con quella latina ex-cìdium, strage, eccidio.

Quel neologismo poteva descrivere l’Olocausto e ogni fenomeno di persecuzione e distruzione di gruppi nazionali, razziali, religiosi e culturali, e divenne un crimine distinto per la sua gravità tra le nozioni più generali di crimini di guerra e contro l’umanità, un crimine universale contro lo ius gentium.

La lezione di Norimberga

Un anno dopo il lavoro di Lemkin la parola genocidio compare nell’atto di accusa degli imputati nazisti processati davanti al Tribunale di Norimberga istituito dal London Agreement dell’8 agosto 1945. C’era innanzitutto un significato preciso nella scelta di quella città per il processo: nel 1936 erano state le leggi di Norimberga (“Legge per la protezione del sangue e dell’onore tedeschi’ e ’Legge sulla cittadinanza del Reich”) ad iniziare le persecuzioni contro gli ebrei che sarebbero approdate alle “arianizzazioni” delle attività economiche ebraiche e alla “soluzione finale” dei campi di annientamento.

Solo chi non comprende il senso di un continuo work in progress del diritto internazionale tende a sminuire quell’esperienza liquidandola come “giustizia dei vincitori”. In concreto il processo di Norimberga rappresenta una fase assolutamente fondativa dei principi del diritto internazionale umanitario e della giustizia penale universale.

Al di là del valore simbolico del processo (fu svolto senza praticare la tortura e riconoscendo il pieno esercizio del diritto di difesa) e delle condanne esemplari, la comunità internazionale con la Risoluzione n. A/RES/95 (I) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite volle riconoscere nelle regole della Carta di Londra e nella sentenza del Tribunale di Norimberga un valore indiscutibile, destinandole a diventare “fonti” primarie del diritto internazionale.

Nel 1947, in particolare, la Commissione di diritto internazionale incaricata di redigere un «codice di crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità» enucleò i «sette principi» di Norimberga definendo le regole della responsabilità penale individuale di diritto internazionale:

I) «Chiunque è responsabile, e punibile individualmente, per aver commesso atti che costituiscono crimini per il diritto internazionale»;

II) Questo avviene anche se il fatto non è considerato un crimine secondo una legge nazionale;

III) L’aver agito come Capo dello Stato o pubblico funzionario non costituisce circostanza esimente o attenuante ai sensi del diritto internazionale;

IV) Non esime dalle responsabilità l’aver agito per eseguire un ordine del governo o di un superiore;

V) Ciascuna persona accusata di un crimine secondo il diritto internazionale ha il diritto ad un processo equo in fatto e in diritto;

VI) Sono crimini internazionali i crimini di guerra, contro la pace e contro l’umanità;

VII) La complicità nella commissione di un crimine contro la pace, di un crimine di guerra o di un crimine contro l’umanità costituisce un crimine secondo il diritto internazionale.

Principi universali per l’umanità

Lemkin diventa anche l’ispiratore della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, adottata dall’Onu a New York con la Risoluzione 260 A (III) del 9 dicembre 1948, insieme alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: rappresentano i documenti internazionali più ratificati dalla comunità internazionale, i cui principi sono ormai divenuti norme di diritto internazionale consuetudinario, efficaci dunque universalmente a prescindere dall’adesione ai trattati, e superiori a qualsiasi norma interna (anche quelle sulle immunità).

Di lì a poco nel 1949 sarebbero state varate le quattro Convenzioni di Ginevra per la protezione dei prigionieri di guerra, dei feriti, dei malati e dei naufraghi, e della popolazione civile: iniziava il percorso che avrebbe portato ai Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, per culminare nel 1998 allo Statuto di Roma che istituiva la Corte penale internazionale.

Si è consolidato così il diritto che punisce i «crimini internazionali», che come tali si perseguono sul piano universale, e con la loro affermazione sarebbero stati chiamati in causa anche i Capi di stato e di governo, i leader politici e militari a tutti i livelli: di fronte a qualsiasi tribunale nazionale o internazionale – quando ritenuti responsabili – sarebbero stati in ogni caso incriminati, a prescindere da ogni regola sull’immunità, sulla competenza territoriale, sulla prescrizione, o esimente dell’ordine superiore.

Nel Giorno della Memoria il mondo dei giuristi può dare il suo contributo riaffermando con forza questi principi di fronte alle atrocità delle nuove guerre: il diritto internazionale nato dalla Memoria dell’Olocausto ha già dato risposte compiute.

Resta alla coscienza dei popoli farle riconoscere vincolanti anche di fronte ai loro leader irresponsabili. L’Italia, se vuole essere coerente con la sua tradizione giuridica e rendere concreto omaggio al Giorno della Memoria, ha il dovere di promuovere con più convinzione i principi del diritto internazionale umanitario.

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