I Balcani occidentali vivono la peggiore crisi dagli anni Novanta, con gli echi della guerra che tornano attuali. Ma l’Unione europea non fa abbastanza per fermare i rigurgiti separatisti di Milorad Dodik, il leader serbo della presidenza tripartita bosniaca.

Anzi se ne rende persino complice: si fa dirottare da Viktor Orbán. Dentro il gabinetto di Ursula von der Leyen, l’ungherese Olivér Várhelyi, fedelissimo del premier, dalla sua posizione chiave di commissario europeo all’allargamento, favorisce e persino stipula con Dodik i piani per frammentare la Bosnia e portarla verso il conflitto.

I documenti filtrati sulla stampa locale di Sarajevo mostrano che i due –  l’alleato di Orbán, Dodik, e il suo uomo a Bruxelles, Várhelyi –  addirittura concertano la sospensione di una legge sul genocidio e i piani di secessione. Un gruppo di eurodeputati, capitanati non a caso da figure di spicco dell’opposizione ungherese, pretendono spiegazioni – e una inchiesta – da Ursula von der Leyen.

Intanto Dodik si fa forte dei suoi rapporti privilegiati con Mosca, e della rete di premier sodali che va da Budapest a Belgrado. Orbán mette a segno così un duplice obiettivo: radica la sua presenza nell’area e fa il gioco della Russia nel destabilizzarla.

La Bosnia e l’equilibrio fragile

(Parata nazionalista a Banja Luka il 9 gennaio. Foto AP)

L’ultimo ricordo di guerra in Bosnia-Erzegovina risale a meno di trent’anni fa. A marzo del 1992 il referendum che sancisce l’indipendenza della Bosnia dalla federazione jugoslava è la scintilla che trascina il paese nel conflitto armato: il 5 aprile i bosniaci si dichiarano indipendenti nonostante la contrarietà dei serbi.

La guerra civile, l’assedio di Sarajevo e il massacro di Srebrenica – un vero e proprio genocidio dove 8mila bosniaci musulmani vengono uccisi dai serbi – scuotono tutto l’Occidente.  Nel 1995, dopo Srebrenica, la Nato interviene militarmente e in quello stesso anno, sotto la spinta dell’amministrazione Clinton, vengono siglato gli accordi di Dayton. 

Da allora la Bosnia-Erzegovina si articola in due entità territoriali, la federazione di Bosnia-Erzegovina (Bih) e la repubblica serba di Bosnia-Erzegovina (Republika Srpska), e un distretto, quello nord-orientale di Brcko. L’architettura politica e istituzionale del paese porta ancora le tracce degli accordi, a cominciare dal fatto che tuttora la comunità internazionale è presente con un Alto rappresentante che affianca le istituzioni locali e ha poteri in parte anche di governo.

Questa figura dovrebbe garantire il processo di state-building in un quadro composito anche sul piano etnico e religioso, con bosgnacchi, serbi e croati.

La deriva separatista di Dodik

(Una bandiera gigante della Serbia esibita dai serbo-bosniaci a Sarajevo il 9 gennaio. Foto AP)

Milorad Dodik è una figura politica chiave per la repubblica serba di Bosnia-Erzegovina (Republika Srpska) da decenni: ne è stato il premier dal 1998 al 2001 e dal 2006 al 2010; ne è stato poi presidente fino al 2018.

La sua leadership degli esordi, a ridosso degli accordi di Dayton, viene interpretata dai governi occidentali come capace di favorire un processo di coesione nel paese, sempre suscettibile di ricadere in dinamiche settarie. All’epoca Washington lo considera «una boccata d’aria fresca» - l’espressione è della segretaria di stato di allora Madeleine Albright – in chiave anti nazionalista.  

Il Dodik degli ultimi anni prende invece tutt’altra direzione, improntata a corruzione e nazionalismo. La sua deriva dispotica e separatista ha finito per rappresentare oggi una conclamata minaccia all’unità e alla pace.

Dal 2018 il leader serbo-bosniaco condivide con Šefik Džaferović e Željko Komšić la presidenza tripartita della Bosnia-Herzegovina, dove i tre rappresentano rispettivamente serbi, bosniaci e croati. Ma da questa estate Dodik non fa che boicottare le istituzioni condivise e la condivisione del processo decisionale. Anzi ha apparecchiato una sorta di secessione. 

La negazione del genocidio

(Milorad Dodik a una commemorazione ufficiale per Momcilo Krajisnik, criminale di guerra, a Banja Luka nel settembre 2020. Foto AP)

La retorica separatista di Dodik si unisce a quella anti-occidentale e negazionista. Il ruolo dell’Alto rappresentante, che è il garante del processo di coesione nel paese, è per il leader il primo perno da abbattere per realizzare le sue ambizioni secessioniste.

Già nel 2010, quando il Consiglio per l’attuazione della pace chiedeva di «non dimenticare il genocidio di Srebrenica e i crimini contro l’umanità», Dodik mandava a dire alla comunità internazionale che «la definizione che dà sulla natura di quel massacro è arbitraria e inaccettabile». Negli anni seguenti Dodik ha celebrato criminali di guerra serbi come Radovan Karadzic e Momcilo Krajisnik con targhe onorifiche e cerimonie. 

Questa estate l’alto rappresentante Valentin Inzko, prima di lasciare l’incarico al successore Christian Schmidt, ha compiuto due gesti: si è recato in visita a Srebrenica «in cerca dell’anima» e poco dopo ha «seguito la coscienza e usato i poteri a disposizione» per emanare un decreto che trasforma in crimine la negazione del genocidio in Bosnia-Herzegovina.

Il negazionismo è un dato di fatto, e Inzko ha detto di voler allineare la Bosnia con la giurisdizione europea, che infatti lo vieta. Per Milorad Dodik la nuova legge è stata l’ennesimo pretesto per andare allo scontro. 

L’uomo di Orbán e la complicità Ue

(Il Commissario ue all'allargamento, l'ungherese Oliver Varhelyi. Foto AP)

«Il pericolo che il paese si divida è imminente, e il rischio che si torni a un conflitto è una prospettiva assai concreta»: così l’attuale rappresentante della comunità internazionale, il tedesco Christian Schmidt, che ha preso il posto di Inzko, riassume la situazione. Il 5 gennaio gli Stati Uniti sono intervenuti imponendo sanzioni contro Dodik e la sua cerchia: divieto di ingresso, asset congelati, in ragione delle loro «attività di destabilizzazione» e dell’alto grado di corruzione.

Un documento trapelato e reso pubblico dalla testa Istraga, di Sarajevo, rivela invece la complicità tra il commissario europeo all’allargamento e Dodik. Olivér Várhelyi – così si chiama il commissario – viene indicato dal premier ungherese come il suo nome per la Commissione nell’autunno 2019, dopo che l’Europarlamento ha silurato il primo nome fatto da Budapest, e cioè László Trócsányi, ritenuto in conflitto di interessi.

La stampa ungherese filogovernativa definisce Várhelyi come «un diplomatico esperto, su cui le istituzioni Ue avranno poco da obiettare»: lavori pregressi in Commissione, poi rappresentante del governo ungherese a Bruxelles. Ma è senza dubbio «un fedelissimo al premier». «Non vuole compromessi, solo vittorie complete».

Il documento e il piano separatista

Il 25 novembre il commissario ungherese si trova insieme alla delegazione dell’Ue in Bosnia. Proprio dalla relazione di quell’incontro, fatta stilare dall’ambasciatore Ue nel paese, Johann Sattler, si trovano le tracce della complicità tra Várhelyi, che si muove a nome di Bruxelles, e Dodik.

Anzitutto il commissario attribuisce le colpe della crisi politica all’ex alto rappresentante Inzko, da lui biasimato per la mossa della legge anti genocidio. «Il fatto che sia stata imposta l’ultimo giorno del suo mandato la rende problematica: adesso bisogna capire come correggerla».

Da qui si deduce il lavorìo del membro del gabinetto von der Leyen, che considera la legge contro il negazionismo «un problema da risolvere».

Ma il passaggio clou riguarda il piano separatista di Dodik. Nella notte di venerdì 10 dicembre, il parlamentino serbo-bosniaco ha approvato la disgiunzione di istituzioni chiave della repubblica serba di Bosnia, come il fisco, la sfera giudiziaria e le forze armate, dal resto del paese.

Nell’incontro di fine novembre a cui partecipa il commissario, quel piano è già tracciato. Dalle parole di Várhelyi appare chiaro che lui e Dodik abbiano concordato sia una data per la sessione speciale che le dinamiche di entrata in vigore del trasferimento di competenze. Inoltre a fine novembre Várhelyi già parla di una sessione speciale del parlamento da tenersi il 10 dicembre; ma la convocazione è stata resa pubblica solo il 7 di quel mese. 

Le reazioni e il ruolo di Orbán

(Il premier ungherese con quello ceco, sloveno, serbo e con Dodik, al "summit demografico" di settembre. Foto AP)

Il 12 gennaio un gruppo di eurodeputati ha chiesto l’avvio di un’indagine sul ruolo di sostegno svolto dal commissario Várhelyi nei confronti del separatista Dodik e della crisi in Bosnia.

Tra i firmatari, esponenti di spicco dell’opposizione ungherese come Klara Dobrev e Katalin Cseh. «Von der Leyen, oltre a verificare l’autenticità dei documenti, deve chiarire il ruolo del membro della sua Commissione», dice Cseh.

Per la eurodeputata, il comportamento di Várhelyi sembra più in linea con la strategia del premier ungherese che con la posizione che ci si aspetta dall’Ue. «Orbán lavora da tempo per acquisire sempre più influenza sui Balcani e a tal fine sguazza in acque torbide, si allea con gli autocrati di quella regione. Sono tutti connessi tra loro, destabilizzano l’area e in tal modo agiscono nell’interesse di Putin». 

L’analisi di Cseh trova riscontri nei fatti. Il premier ungherese estende la propria influenza nell’area a cominciare dall’acquisizione dei media. Si è opposto in sede europea all’imposizione di sanzioni nei confronti di Dodik e fomenta l’odio contro i bosgnacchi: «Il punto problematico di un ingresso della Bosnia in Ue è come integrare un paese con due milioni di musulmani».

Suo stretto alleato è Aleksandar Vučić, il presidente della Serbia che emula dal premier ungherese tanto le derive autocratiche quanto i sodalizi con Mosca e Pechino. Vučić ha rapporti con Dodik, e tutti questi esponenti della «rete orbaniana» ne hanno con Putin. Proprio la relazione stretta con la Russia consente al separatista serbo-bosniaco di rispondere con sfrontatezza alle sanzioni e ai moniti occidentali.

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