Alla fine di un Consiglio europeo che il presidente Charles Michel non ha esitato a etichettare come «difficile» – e che infatti si è protratto più del previsto – la premier Giorgia Meloni ha fatto una ricostruzione tutta sua di orgogli e vergogne «della nazione».

La versione di Meloni

Da una parte, Meloni ha rivendicato che il rapporto sul mercato comune presentato da Enrico Letta ai leader «contenga elementi che prendono spunto dall’esempio italiano»; e interrogata dai cronisti sulle voci di un ruolo europeo per Mario Draghi si è detta «contenta che si parli di un italiano per un ruolo importante». Ha insomma rivendicato un protagonismo, intestandosi un “cambio di narrazione”: «Questo era l’ultimo summit prima del voto, dopodiché ci reincontreremo in uno scenario diverso. Stiamo già cambiando le priorità, ad esempio l’immigrazione», ha detto, assicurando di aver parlato soprattutto di questo, il 18 mattina, nell’incontro a margine con Ursula von der Leyen.

«Ma auspico che dopo giugno saremo di fronte a un’Europa diversa, più pragmatica». Cambieranno gli equilibri, e anche per questo sul nome di Draghi «per ora si fa filosofia: aspettiamo il voto». Il rapporto di Letta e quello venturo di Draghi vengono letti come prova che «due persone europeiste ci dicono che l’Europa va cambiata».

Tutta questa narrazione di revanche ha come contraltare che le critiche siano inquadrate da Meloni come «fake news», e chi le fa come nemico della patria, «perché poi rimbalzano all’estero, si parla di derive e c’è chi dà lezioni all’Italia».

Tra le «fake news» Meloni mette «che si sostenga che voglio limitare la libertà di stampa» o «che vogliamo cambiare la 194».

Un vertice «difficile»

«Sul mercato unico dei capitali alla fine è stato trovato un equilibrio, nelle conclusioni, che tiene insieme posizioni diverse», ha detto Meloni: «L’Italia spingeva per l’unione per liberare risorse private. Non si può dire di no sia al debito pubblico che al mercato dei capitali».

Ma c’è chi questi “no” li dice, ed è perciò che il summit è apparso difficile. «Non chiamatela unione dei mercati dei capitali», aveva detto Letta, sapendo che le parole sono sempre importanti, e a volte pure scomode; l’ex segretario dem presagiva il grado di intolleranza su un dossier che da tempo in Ue era rimasto impantanato. «Io la chiamo “unione dei risparmi e degli investimenti”: l’integrazione dei mercati finanziari serva a finanziare le transizioni (ecologica, digitale e così via) in Ue».

Ma cambiando circostanze e perifrasi non muta anche il dissenso. E infatti in questo summit l’idea di un’unione dei mercati dei capitali, spinta anzitutto dalla Francia ma anche da governi come quello italiano, ha incontrato resistenze, a cominciare da quelle sulla sorveglianza condivisa del mercato.

Letta ha proposto di rafforzare l’authority europea (l’agenzia Esma con sede a Parigi) e affidarle gradualmente più responsabilità di supervisione. «Iper regolazione e iper centralizzazione», secondo il Lussemburgo, che ha guidato la fronda dei contrari. «La vigilanza dev’essere rafforzata e abbiamo chiesto alla Commissione di analizzare la faccenda», ha concluso Michel.

Un’altra bordata al rapporto Letta è arrivata indirettamente dalla commissaria Ue alla Concorrenza, Margrethe Vestager: il piano di estendere il mercato unico alle telecomunicazioni, con le fusioni, ridurrebbe in realtà la competitività, e distorcerebbe il mercato.

Il punto di dibattito politico più acceso resta quello dell’indebitamento comune: se ne riparlerà a giugno, quando toccherà a Draghi presentare il suo rapporto.

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