Almeno agli esordi della pandemia è stata in gran parte la paura a legittimare la politica, con tutte le conseguenze del caso: un sostanziale azzeramento del dibattito sulle responsabilità e le scelte della politica stessa. La questione riguarda tutta Europa, Italia compresa, anche se il primo scandalo sta deflagrando in Germania; pure in Belgio il tema prende spazio.

Il «peggiore scenario»

Le rivelazioni di Die Welt riguardano marzo 2020, quando la Germania sta affrontando il primo lockdown. Il ministro dell’Interno, Horst Seehofer (Csu), in vista delle festività pasquali, non vuole allentare le misure. Comincia uno scambio di email fra il ministero e gli esperti dell’istituto Robert Koch, l’ente scientifico di salute pubblica governativo. Seehofer chiede un’analisi che «valuti e prepari le misure» da prendere; e in effetti quel dossier, una volta finito, descrive «il peggiore scenario», con milioni di morti da mettere in conto. Ma l’oggetto dello scandalo sono le 200 pagine di email scambiate tra ministero ed esperti: viene fuori la spinta del governo perché lo scenario descritto dagli scienziati sia abbastanza impressionante da suscitare un «effetto choc». E a che pro? Per legittimare «nuove misure di natura preventiva e repressiva», scrive in quel carteggio il segretario di stato Markus Kerber. Il ministero chiede che dal dossier i cittadini possano «trarre un forte senso di impotenza, così da aprire la strada a un forte intervento dello stato». Generare paura per ammansire, insomma. E come? Presentando «le cifre meno favorevoli», raddoppiando i possibili decessi, condendo con immagini angoscianti. La politica chiede alla scienza di legittimare la politica, mentre «al contrario, la scienza dovrebbe fornire gli elementi per le decisioni», dice il liberale Kostantin Kuhle (Fdp); l’opposizione chiede chiarimenti. L’eurodeputata francese Michèle Rivasi rivendica l’urgenza di un dibattito europeo sul tema, per «uscire dalla paura paralizzante» e riguadagnare il campo democratico.

I media accomodanti

L’uso della paura per silenziare le critiche fa discutere in Belgio. Un documentario di Bernard Crutzen, Ceci n’est pas un complot, punta l’attenzione sul ruolo dei media in questa dinamica. Tra le perle, un intervento di Mark van Ranst a Chatham House, think tank britannico. Van Ranst è un noto virologo belga, un passato in Big Pharma, un ruolo cruciale in tutte le pandemie. Nel 2009, con la suina, fu commissario all’influenza. Con il Covid-19 è stato nominato nel comitato scientifico. A Chatham House, nel 2019, dice la sua sul rapporto coi media in pandemia: «Devi battere su un unico messaggio, essere onnipresente in tv, stabilire un rapporto di fiducia coi media. Così ci sarà una copertura totalmente piegata alla tua versione, senza voci alternative». Crutzen mostra proprio questo: l’insistenza martellante dei media sugli aspetti drammatici, gli effetti patemici, la paura. Noam Chomsky distingue tra stampa come cane da guardia del potere e propaganda, in cui i media «presentano un’immagine del mondo che difende e inculca le priorità dei gruppi al potere»; Crutzen accusa i media belgi di propaganda. La storica Anne Morelli, autrice di Principes élémentaires de propagande de guerre, dice che «con il Covid-19 assistiamo a una guerra tiepida: non è consentito il dissenso; ogni ragione va sottomessa alla “vittoria” contro il virus». Nella prima ondata, la narrazione fatta da politici e media aveva molte analogie con quella bellica. Emmanuel Macron ha detto un «siamo in guerra» in diretta tv; la retorica dei medici soldati (però sguarniti di munizioni, di protezioni) ci è nota. L’allerta tipica di un frangente di guerra produce quello che la scienza politica chiama “effetto rally ‘round the flag”: l’identificazione con il leader e la ridotta attenzione critica verso le scelte politiche. In poche parole, la paura fa il gioco del potere, e lo legittima.

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