Domenica il Kosovo va al voto anticipato, a poco più di un anno dalle politiche del novembre 2019. Una legislatura breve e travagliata, che ha visto alternarsi due governi. Il primo, guidato da Albin Kurti, un nazionalista con idee redistributive in economia e una forte carica anti-corruzione, è durato meno di due mesi. Si era insediato a febbraio 2020, è caduto a fine marzo, dopo che la Lega democratica del Kosovo, che inizialmente lo aveva appoggiato, ha promosso il ribaltone. A giugno un suo esponente, Avdullah Hoti, ha dato vita a una nuova coalizione, di centrodestra, sorretta da 61 deputati sui 120 totali.

Un margine minimo, che non sussisterebbe nemmeno, se il deputato di maggioranza Etem Arifi, condannato di recente per frode, avesse rimesso il mandato rispettando la costituzione. Prevede che un reato, se non più impugnabile, causi incompatibilità nei tre anni successivi all’inizio della decorrenza. A dicembre la Corte costituzionale ha stabilito che il governo Hoti è illegittimo, ordinando nuove elezioni. Albin Kurti, 46 anni, è dato come il sicuro trionfatore della tornata. Il suo partito, Autodeterminazione (Vetëvendosje), dovrebbe ottenere almeno il 40 per cento.

Kurti tornerà premier, ma non avrà un seggio parlamentare. Il caso Arifi ha portato la commissione elettorale a vagliare il profilo di tutti i candidati, di tutte le liste. E Kurti, per una condanna definitiva per disordini in parlamento nel 2015 e 2016 (lanciò gas lacrimogeni bloccando una sessione), comminata a ottobre 2018, starà fermo un giro. Ha comunque presentato ricorso.

Dall’indipendenza a oggi

L’obiettivo di Kurti è formare un governo stabile con l’appoggio delle minoranze etniche (hanno seggi assegnati di diritto) e riprendere il progetto che aveva lasciato un anno fa: liberare il Kosovo dalla partitocrazia, a suo avviso logorata dalla corruzione, che lo retto dalla fine della guerra con la Serbia. Si è combattuta nel 1998-1999, concludendosi con la campagna aerea della Nato contro il regime di Slobodan Milošević. Vi ha partecipato anche l’Italia. È stato il primo passo verso l’indipendenza kosovara, sancita ufficialmente nel 2008.

Tre le forze motrici del vecchio sistema.

Il Partito democratico di Hashim Thaçi e l’Alleanza per il futuro di Ramush Haradinaj discendono dall’Esercito di liberazione, la guerriglia antiserba degli anni Novanta. Thaci ne era la guida politica, Haradinaj uno dei più famosi capi militari. E poi c’è la Lega democratica di Hoti. Nasce dalla resistenza nonviolenta verso Belgrado, ma più volte è scesa a patti nel corso con gli ex signori della guerra.

Per Kurti, questi partiti sono comitati d’affari che hanno catturato lo stato, distruggendolo. E forse è proprio per questo che la Lega democratica ha optato per il ribaltone. Temeva le conseguenze della campagna contro i corrotti che l’ex premier voleva attuare. Ancor più preoccupato era il presidente Hashim Thaçi, il politico più influente di questo lungo ventennio: sarebbe stato lui a suggerire alla Lega di saltare il fosso. Da novembre, non è più capo dello stato. Si è dimesso dopo che il Tribunale internazionale per il Kosovo, che indaga sulla condotta dell’Esercito di liberazione, lo ha accusato di crimini di guerra. Un ostacolo in meno, per Kurti.

Il leader di Autodeterminazione avrà comunque un’agenda complicata, segnata dai mille problemi di questo paese. Resta ancora sorta di semi-protettorato occidentale per via della presenza di missioni civili Onu e Ue, oltre che di un contingente di sicurezza a guida Nato. Si chiama Kfor e da anni il comando è affidato all’Italia: qualcosa, almeno nei Balcani, contiamo ancora.  

Ancor più che nella sovranità pallida, accentuata dal fatto che una striscia del nord kosovaro resta sotto il controllo de facto di Belgrado, il dramma nazionale è l’economia. L’ex provincia serba è uno dei paesi più poveri d’Europa. Il pil pro capite è di poco superiore ai 4mila euro, la disoccupazione si aggira intorno al 30 per cento, e manca la grande industria. L’economia si fonda su un po’ di servizi e sulle piccole attività individuali. Autolavaggi e officine, per fare un esempio, rappresentano il sette per cento del pil.

Un paese giovane

C’è poi la grande questione generazionale. La metà dei kosovari ha meno di 25 anni. Giovani che vogliono lavoro, visti per l’Europa, modernità. Non guardano alla guerra, alle retorica della patria. Vogliono futuro. Autodeterminazione pesca molto del suo consenso da questo bacino, con una proposta fondata su lotta alla corruzione, come detto, ma anche merito, giustizia sociale e innovazione. Non sarà facile darle sbocchi concreti. Ci saranno di certo resistenze, da parte di burocrazie e beneficiari vari di piccole rendite assicurate dal vecchio sistema. A ogni modo, è questo il momento di Albin Kurti; la finestra di opportunità che può portare il nuovo Kosovo a soppiantare il vecchio.  

Il leader di Autodeterminazione fa politica da una vita. Si fece le ossa negli anni Novanta, nel movimento universitario. Gli atenei erano controllati da Belgrado, e gli studenti chiedevano autonomia. Kurti ne divenne uno dei leader. Finì in carcere in Serbia. Negli anni successivi fondò Autodeterminazione, come movimento extraparlamentare animato da nazionalismo e antagonismo. Molte le proteste di piazza: contro il protettorato internazionale, la lunga mano serba, i politici corrotti. Nel 2011, Autodeterminazione partecipò per la prima volta alle elezioni, istituzionalizzandosi. Da allora la crescita è stata costante.

Vjosa Osmani, 39 anni, è l’altro volto del cambiamento. L’alleata ideale per Kurti. È stata candidata premier della Lega democratica nel 2019, il partito in cui è cresciuta. Dopo le elezioni è diventata presidente del Parlamento. Ora, a seguito delle dimissioni di Thaci, è capo dello stato ad interim. Osmani ha rotto con la Lega democratica dopo il ribaltone anti-Kurti. Come lui, voleva spazzare via la “casta”. E con lui, adesso, ha scelto di correre. La sua presenza nelle liste di Autodeterminazione ha avuto un effetto al rialzo nei sondaggi.

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