Nell’ufficio di Marco Costa, presidente del Parco del delta del Po, un pannello elenca i dati relativi alla pesca delle anguille dal 1781 al 1950: «Nel 1781 il pescato annuo era di un milione e 340 kg. Lo scorso anno siamo scesi a 50mila kg in tutto”». Bastano questi dati per capire la drastica diminuzione delle anguille nella zona di Comacchio, da decenni la capitale di questo tipo di pesce. «Le anguille si pescano tra ottobre e dicembre», ci spiega Piercarlo Farinelli, detto Carletto, «ma, da quando ho iniziato a pescare, 45 anni fa, la loro disponibilità è enormemente calata. Tra pochi anni non ne troveremo più». Pescatore e dipendente del Parco del Po, ogni anno è Carletto a stabilire, in base alle fasi lunari e al vento, quando è il momento di prelevare uno stock di anguille dalla laguna per liberarle in mare. Perché proprio lasciando che le anguille si allontanino per 7mila chilometri, nuotando fino al mar dei Sargassi, tra le Bermuda e le Antille, dove questi pesci depongono le uova, Comacchio può sperare che la specie sopravviva e che ogni anno nuovi nati tornino nelle valli ferraresi. Invece ogni anno qui in Emilia, ma anche negli altri corsi d’acqua europei, ne tornano sempre meno. A minacciare la specie sono vari fattori: «Il cambiamento climatico ha indebolito la corrente che porta le larve di anguille dal Golfo del Messico verso l’Inghilterra, con la conseguenza che ne arrivano molte meno»,  spiega Costa. A far sparire le anguille si aggiungono l’inquinamento, la pesca locale e gli 1,2 milioni di dighe europee, che, insieme alle turbine delle centrali idroelettriche, impediscono il passaggio delle anguille verso e da il mar dei Sargassi. E se il passato ha determinato un calo drastico delle anguille, che ora sono il 10 per cento di 50 anni fa, un’ipoteca sul futuro è arrivata quando è iniziata la caccia clandestina alla nostra anguilla per allevarla in Asia, in particolare in Cina, da dove arriva l’85 per cento dell’anguilla alla griglia di tutto il mondo.

Il mercato clandestino

Dal 2013 l’anguilla europea (Anguilla anguilla) è ritenuta “criticamente in pericolo” e inserita nella red list dell’International Union for Conservation of Nature and Natural Resources, alla pari del lemure dalla coda ad anelli e della balena franca nordatlantica. Particolarmente preoccupante è il calo delle anguille di vetro o anguille cieche, cioè le piccole anguille, dal colore biancastro e dalla lunghezza di circa 5 cm, di cui già dal 2010 l’Unione Europea ha vietato ogni esportazione. Il divieto ha creato un mercato clandestino stimato in 3 miliardi di euro l’anno, in cui il traffico di anguille cieche europee sopperisce alla diminuzione delle anguille giapponesi (anguilla japonica), la cui disponibilità è passata dalle 3300 tonnellate del 1961 alle 65 del 2020. E così in Giappone, dove dal secolo XVII è tradizione mangiare il kabayaki, un raffinato spiedino di anguilla marinata E poiché la domanda asiatica stimola l’offerta europea, dal 2016 a oggi Europol ha arrestato circa 400 persone dedite al contrabbando. Nel febbraio di quest’anno un giudice spagnolo ha condannato un trafficante di quello che viene chiamato “oro bianco” a 18 mesi di carcere e una multa di 7,2 milioni di euro per il tentato smercio di 65 chili di anguille di vetro in Marocco. Ma il fatto che, nonostante le condanne, questo traffico sia più redditizio, ma assai meno rischioso di quello di stupefacenti o di esseri umani induce molti a perpetrare quello che Andrew Kerr, presidente dell’organizzazione Sustainable Eel Group (SEG), definisce «il più grande crimine del pianeta contro un essere vivente». Alla griglia, un chilo di cieche può valere fino a circa 25mila euro al chilo.

Il valore delle cieche non è determinato solo dall’appetito dei giapponesi, ma anche da una specificità di questo pesce, su cui per lunghi secoli studiosi di vari ambiti si sono interrogati: il suo modo di riprodursi. Tanto Aristotele quanto Sigmund Freud indagarono sugli organi riproduttivi di alcuni esemplari, senza poter sospettare che essi si sviluppino solo quando l’esemplare adulto inizia il suo viaggio, che a volte dura oltre un anno, verso il citato mar dei Sargassi.

L’ipotesi è che l’anguilla sia emersa circa 60 milioni di anni fa, vicino all’isola del Borneo, ma che la deriva dei continenti abbia ampliato la distanza tra le aree in cui le anguille vivevano e quella in cui deponevano le uova, e che il viaggio sia una forma di adattamento dell’anguilla adulta. Poiché il percorso è lungo e raggiungere la meta è fondamentale, prima di partire, il corpo del pesce subisce una serie di modificazioni: la pelle da verde bronzo con riflessi gialli diventa argentea per mimetizzarsi meglio nelle acque oceaniche, gli occhi diventano più grandi per vedere meglio nelle profondità e gli accumuli di grasso vengono utilizzati come fonte energetica in quanto durante il viaggio le anguille non si nutrono. Una volta raggiunta la meta, ogni esemplare femmina depone fino a un milione e 200mila uova e poi muore. E dato che l’anguilla non si riproduce in cattività, ma solo in questo mare remoto, a questo punto iniziano i problemi: dalle uova nascono le larve, i “leptocefali”, che trascinati passivamente dalle correnti, attraversano l’Atlantico, arrivano nel Golfo di Biscaglia, tra Spagna e Francia, e diventano le ambitissime cieche preda dei trafficanti.

Le possibili soluzioni

Per ovviare alla loro drastica diminuzione, che pregiudica la sopravvivenza della specie, gli scienziati lavorano da tempo: a Tokyo e a Bologna, grazie all’equipe del professor Oliviero Mordenti, si è riusciti a far deporre e dischiudere le uova in laboratorio, simulando un contesto simile a quello del Mar dei Sargassi. Ma il problema è che le larve non sopravvivono perché nessuno sa cosa mangiano dopo aver assorbito il nutrimento contenuto nel “sacco vitellino, una sorta di bolla sotto la pancia” spiega Costa. Nell’oceano, a differenza delle normali larve di pesce che in genere si nutrono di zooplancton, i leptocefali si nutrirebbero di “neve marina”, mix di particelle detritiche difficili da riprodurre in laboratorio.

In attesa dei progressi della scienza, comunque, si stanno prendendo contromisure: in Italia nel 2021 è stato finanziato con 5 milioni e mezzo di euro il progetto Lifeel (eel è l’anguilla in inglese) che riunisce Lombardia, Emilia Romagna, parco del Po, parco Ticino per intraprendere azioni collettive a difesa delle anguille. Si va dalla costruzione di “passaggi preferenziali” per i pesci, togliendo gli ostacoli di più di 1000 chilometri di fiumi, alla liberazione in mare dei migliori riproduttori fino alla costruzione di “marciapiedi” per evitare che le anguille finiscano dilaniante dalle turbine delle centrali idroelettriche.

A livello europeo invece associazioni come la citata SEG si battono perché i 27 stati ottemperino al patto (Eel management plan) firmato nel 2007 per la gestione del problema. L’azione di sensibilizzazione di SEG e le indagini poliziesche hanno stabilizzato il numero delle cieche dal 2011. Ma resta da colmare il declino degli anni precedenti. E quanto agli esemplari adulti l’idea di far cessare la pesca o di vietarne il consumo non bastano: la mortalità è comunque troppo alta e la misura incrementerebbe solo la pesca di frodo, sostiene Kerr.

Che fare dunque? Facendo seguito al Green deal, il Patto verde europeo per arrivare a zero emissioni in Europa entro il 2050, Kerr propone un Eel Deal, un patto per le anguille, che unisca le forze per tutelare nell’intero continente questo pesce. «Noi non ci battiamo solo per l’anguilla, ma per un intero ecosistema che ne è rappresentato» riassume Kerr. «La siccità, che ora colpisce il Po e quindi l’habitat che un tempo pullulava di anguille, è un indicatore di cosa l’uomo sta facendo dei nostri pesci e corsi d’acqua. L’anguilla è una delle vittime». Ma potrebbe non essere la sola specie ittica a sparire rapidamente dai radar, e dai pannelli relativi alla pesca nel Parco del delta del Po.

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