Il 3 agosto di un anno fa, l’ex re spagnolo Juan Carlos abbandonava il suo paese e si rifugiava ad Abu Dhabi, travolto dalle numerose cause aperte nei suoi confronti dalla giustizia spagnola, da quella svizzera e quella britannica, con l’accusa di evasione fiscale, frode e riciclaggio di denaro. L’uscita dell’anziano monarca dal paese fu concordata con la Zarzuela (il palazzo reale, ndr) nel tentativo di frenare la perdita di consensi nei confronti della monarchia.

Le linee di indagine aperte nei riguardi dell’ex sovrano sono diverse. In primo luogo, c’è quella relativa al presunto scandalo di corruzione per la costruzione dell’alta velocità alla Mecca, che avrebbe fruttato a Juan Carlos cento milioni di dollari finiti in società off shore, da lui poi donati a Corinna Larsen, con cui intratteneva allora una relazione extraconiugale. La seconda si riferisce allo scandalo delle carte di credito “opache” con cui si sarebbero pagate alcune delle spese della famiglia reale; la terza indagine riguarda la disponibilità di denaro attraverso una fondazione che avrebbe pagato all’ex re viaggi di piacere per una decina di anni. Infine, si suppone il possesso di società in paradisi fiscali con conti favolosi.

Materiale da film

Indagini, fatti, impunità che gettano una lunga ombra sul regno di Juan Carlos che sembra avrà la sua The Crown spagnola: lo sceneggiatore spagnolo Javier Olivares sta lavorando a El Rey, riduzione televisiva del libro della giornalista Pilar Eyre Yo, el Rey, per Mediapro. Proprio quest’anno si è celebrato il quarantennale del tentato golpe del tenente colonnello Antonio Tejero, al cui fallimento si deve la legittimazione del monarca che fu indicato al trono dal dittatore Francisco Franco.

«Dal principio del diciannovesimo secolo, dal tempo di Fernando VII, non c’è stata nessuna generazione di Borboni che non sia andata in esilio. C’è una lunga tradizione dei re di Spagna in questo senso», dice Xavier Domènech, storico alla Universitat Autònoma de Barcelona.

«Nel caso di Juan Carlos, a partire dal 2013-2014, comincia una crisi di legittimità del suo regno. Era già circolata l’idea che fosse implicato in affari poco chiari durante la crisi economica del 2008 e si dovette procedere molto rapidamente per fare l’abdicazione nel 2014 in favore del figlio. Il Congresso spagnolo era governato allora da due partiti, il Pp e il Psoe, ma alle elezioni europee del 2014 per la prima volta questi due partiti persero la maggioranza e se ciò si fosse replicato nel Congresso, avrebbe potuto complicare molto l’abdicazione. Perciò, che Juan Carlos finisse col fuggire non sorprende troppo, è coerente con la crisi di legittimità del suo regno».

Nel giugno del 2020 il Tribunal Supremo apre un’indagine nei confronti di Juan Carlos per presunta commissione ricevuta per aver favorito l’aggiudicazione delle opere di alta velocità alla Mecca a un gruppo di imprese spagnole. Si tratta di fatti avvenuti nel 2008, quando Juan Carlos era coperto da immunità. Allora, il governo dell’Arabia saudita gli avrebbe trasferito cento milioni di dollari a titolo di dono veicolandoli alla fondazione panamense Lucum attraverso una banca svizzera. Nel 2012, l’allora re di Spagna avrebbe donato questa quantità di denaro a Corinna Larsen, servendosi di una banca delle Bahamas. Ragione per cui la giustizia svizzera prefigura un reato di riciclaggio.

La rinunica di Felipe

Più tardi, nel marzo 2020, il quotidiano britannico The Telegraph denuncia che Felipe VI è il secondo beneficiario della fondazione Lucum. E, in piena pandemia, il re spagnolo dichiara che rinuncerà all’eredità del padre.

«Se si mette in discussione la monarchia si apre di fatto un processo costituente in Spagna», afferma Domènech, spiegando perché la monarchia sia un argomento tabù in parlamento, dove i socialisti, assieme alla destra, impediscono di discuterne. «Se alla fine l’ex re è investigato e si conclude che il re attuale, Felipe VI, ha relazioni con la situazione fraudolenta del padre, si entra in una situazione insostenibile. Ci sono istituzioni apicali dello stato, quelle giudiziarie soprattutto, che hanno deciso che non si possa investigare sui fatti del re. Perché se cade la figura che rappresenta la monarchia non è più sostenibile il regime creato nel 1978, essendone essa una precondizione».

Il prezzo della corona

La monarchia spagnola costa all’Erario pubblico almeno gli 8,4 milioni annui che figurano in finanziaria, il re percepisce uno stipendio di oltre 250mila euro annui, la regina di circa 140mila euro. Una quantità di denaro rilevantissima che però, a detta degli osservatori, non avrebbe consentito a Juan Carlos un tenore di vita come quello da lui sostenuto.

Una parte delle spese – otto milioni di euro in voli per viaggi che si sarebbero prolungati fino al 2018 – sarebbe finita a carico della fondazione di suo cugino, costituita nel Liechtenstein nel 2003, col nome di Zagatka.

E Juan Carlos, per evitare la notifica del fisco spagnolo per l’evasione di quella somma, nel febbraio di quest’anno ha anticipato 4,4 milioni di euro a titolo d’imposta.

Già nel dicembre scorso, il re emerito aveva versato quasi 700mila euro al fisco spagnolo per le donazioni non dichiarate di un imprenditore messicano che, tra il 2016 e il 2018, si era fatto carico di alcune spese sue e di altri componenti della famiglia reale, attraverso il trasferimento di fondi su carte di credito.

«Juan Carlos diventa re per designazione di Franco. Quel re ha problemi seri di legittimità, sicuramente nel campo dell’antifranchismo, ma anche nel campo falangista», dice Domènech. «Questa mancanza di legittimità all’origine verrà risolta da una legittimità nell’esercizio.

La figura di un re legittimo si costruirà negli anni Ottanta, a partire dal colpo di stato del 23 febbraio del 1981, dove lui emerge come la figura garante della democrazia. In quel periodo in Spagna molta gente non si definisce come monarchica, ma è juancarlista. Questa è l’immagine del massimo consolidamento del re negli anni Ottanta: il re come grande pilota del cambiamento nella transizione. Io credo piuttosto che furono le mobilitazioni popolari della metà degli anni Sessanta in Spagna a rendere impossibile la sopravvivenza del regime».

L’umiliazione

C’è chi dice che si debba valutare il re non dal finale ma da tutto il suo regno: «È che quella fine, la fuga e la frode fiscale gettano una luce diversa su tutta la sua traiettoria. Perché il re non era un evasore solo nel 2014, lo è sempre stato, a quanto pare», puntualizza lo storico catalano.

«È una persona che ha capito che la sua funzione come capo di stato gli permetteva di agire con impunità». Secondo lo studioso, sul tentato golpe del 23 febbraio 1981 bisognerebbe aprire tutti gli archivi che ancora sono sigillati; perciò, dal momento che non si è potuta fare ancora piena luce sul 23-F alcuni interrogativi sono legittimi. «Oltre al ruolo che giocò Juan Carlos in quel colpo di stato, ciò che è abbastanza evidente è che la costruzione dell’immagine del re come grande garante della democrazia legittima l’esercizio della monarchia».

Lo spirito repubblicano è un motivo di consenso maggioritario in Catalogna. La gran parte dei catalani non perdona a Felipe VI il discorso del 3 ottobre 2017, due giorni dopo il referendum sull’indipendenza.

«Nel caso di Juan Carlos c’è un problema di legittimità all’origine, cui sopperisce la legittimità acquisita nel corso del suo mandato. Per Felipe VI il problema è il grande discorso che segnerà il suo regno: nel caso di suo padre è stato quello che ha permesso di fermare il golpe, nel caso di Felipe VI è stato il discorso durissimo del 3 ottobre», dice Domènech.

«Perché la figura del re, secondo la Costituzione, è simbolo dell’unità dello stato e veglia sulle buone relazioni tra le istituzioni. Ma quello di Felipe VI è un discorso di parte, di scontro. Del discorso del 3 ottobre sappiamo che il Psoe non voleva che si facesse, poi abbiamo saputo che neppure il governo del Pp voleva che fosse fatto, perciò a nome di chi ha parlato il re?

Il discorso di Juan Carlos aveva portato la sinistra spagnola a vedere quel re positivamente, il discorso di Felipe VI ha fatto di Vox il massimo difensore della figura del re, schiacciandola sulla parte più reazionaria dello schieramento politico».

© Riproduzione riservata