Se all’inizio della pandemia avete coltivato l’illusione che i toni si fossero abbassati, e se poi avete esultato per la vittoria di Joe Biden su Donald Trump, allora state facendo lo stesso errore di sempre: sottovalutare i populismi di destra. Marine Le Pen sta per dimostrarvelo, a cominciare dal fatto che nei sondaggi è in testa a tutti. Pure davanti al presidente Emmanuel Macron, ça va sans dire. La Francia è dove tutto inizia: qui il padre Jean-Marie è stato il primo candidato di estrema destra ad arrivare al secondo turno delle presidenziali, nel 2002; ed è stato necessario un fronte repubblicano (l’antesignano del “cordone sanitario”) per sbarrargli la porta dell’Eliseo. E sempre qui, nella République, la figlia Marine ha normalizzato l’estrema destra e ha costruito un modello da esportazione. Si veda alla voce “sovranismi” e Lega. Ora la novità è che mentre l’evoluzione del Rassemblement (ex Front) National continua, e anzi sono gli altri partiti di destra a cambiare appresso a lui, per Le Pen si presenta un’occasione succulenta. A Parigi uno scandalo a sfondo sessuale travolge l’élite culturale e politica del paese, e qual è l’argomento per eccellenza dei populisti di destra? La rivincita del popolo sull’élite. Nel caso francese, sull’élite parigina.

L’élite spaesata

Ottobre 2020: l’Observatoire studentesco sulle violenze sessuali nelle università pubblica un dossier allarmante. Una persona su tre è vittima di violenza, una su dieci di stupro. Una situazione paragonabile a quella che ha già travolto i campus americani. Gennaio 2021: l’avvocata Camille Kouchner, figlia di Bernard, veterano della politica francese (è stato più volte ministro), pubblica La Familia grande. E sgancia la bomba: il suo patrigno, il costituzionalista e politologo Olivier Duhamel, ha abusato del gemello di lei quando era adolescente. Il caso scatena un #metooinceste (movimento stile #metoo che denuncia gli incesti) e #SciencesPorcs, che prende spunto dagli abusi a Sciences Po: infatti Duhamel è, quando il libro esce, una figura cardine dell’università di studi politologici parigina, la stessa che forgia le élites culturali e politiche di Francia (e mondo). Duhamel è stato europarlamentare socialista, consigliere di molti governi. Una figura dell’élite intellettuale e politica, appunto; il che conduce al nuovo risvolto dello scandalo. Martedì Frédéric Mion ha annunciato le dimissioni da direttore di Sciences Po: è emerso infatti che già nel 2018 Aurélie Filippetti, ex ministra socialista, lo allertò sull’affaire Duhamel. In risposta ottenne omertà, continuata fino a questo gennaio, quando Mion l’ha chiamata per dirle: «Non si sappia che noi sapevamo». Ora Sciences Po è nella bufera.

Popolo contro casta

Occasione ghiotta per la destra populista, il cui argomento principe è lo scontro fra popolo ed élite. «Il populismo, anche quando arriva al potere – dice la politologa Nadia Urbinati – vuol apparire anti establishment. Tenere vivo il nemico, intendere la propria vittoria come rivelatoria del “vero popolo” è il suo grimaldello». Nel caso francese, a questa retorica si aggiungono due aspetti; li spiega l’antropologa dell’Éhess Lynda Dematteo, che di populisti (inclusi i nostrani leghisti) è esperta. «Da noi la divaricazione tra Parigi e la provincia, tra l’élite della capitale e la Francia rurale, è strutturante». Una frattura emersa in modo potente con i gilet gialli, «accomunati dalla révanche verso l’élite». E infatti, dice Dematteo che li ha studiati, «mi scrivono messaggi del tipo: “Ah, questi socialisti! Non fanno niente contro i pedofili!». Dematteo è persuasa che lo scandalo parigino ingrosserà il consenso verso Le Pen, che pure «non si è espressa apertamente sul caso». Non ha bisogno di farlo: la sua retorica va da sola. TV Libertés, rete dell’estrema destra, nella trasmissione Pedofilia: la caduta degli intoccabili? lo mostra. Sul caso Duhamel, il criminologo Xavier Raufer dice che «non è la storia di una famiglia ma di una casta: un gruppo nel quale ci si dà lavoro, accesso ai media, ci si sposa, si dipende l’uno dall’altro». «Una élite», commenta la presentatrice. E Raufer: «Questa casta è la generazione che ha preso il potere dopo il ‘68, gli ex gauchistes allineati al sistema liberale. Hanno preso il potere intellettuale, scalzato l’eredità di De Gaulle».

Establishment futuro

Il prossimo anno la Francia sceglie il nuovo inquilino dell’Eliseo. O l’inquilina: Marine Le Pen è in testa ai sondaggi. Lei sale (oggi è al 26 per cento), Macron scende (24). Segue Xavier Bertrand, sempre di destra (Républicains), con il 15. Giovedì Le Pen ha duellato in tv con il ministro degli Interni Gérald Darmanin, repubblicano, vicino a Sarkozy. Il dibattito, dicono i commentatori, è parso «cordiale». Il motivo è che mentre Le Pen si “normalizza”, l’altra destra si “lepenizza”, dunque le due posizioni appaiono sempre meno distanti. Il politologo Yves Sintomer, che fa la spola tra l’università di Parigi 8 e quella di Oxford, dice che il Rassemblement sta continuando la sua evoluzione: «Rispetto al padre, Marine ha spostato il partito verso una destra dura ma non antisemita, moderna su temi come l’omosessualità». Il mutamento ideologico c’è, seppur talvolta sia cosmetico. Cambia «il rapporto con l’Europa: una volta si parlava di uscire dall’Ue, oggi di Europa sovrana». Macron scommette «sul fatto che la sinistra non saprà unirsi», sull’estinzione dei socialisti (Anne Hidalgo è data all’8 per cento); ignora gli imprevisti (alle municipali i Verdi hanno sbancato) e punta a destra. Alle future presidenziali, la destra populista normalizzata e quella tradizionale lepenizzata inseguiranno «due tipi di elettorato: quello popolare stanco della crisi e che ce l’ha con l’élite, e la classe media, più inserita, che vuol stare in Europa». Visto il disamore dei francesi per Macron, Le Pen, la donna che combatteva «la casta», ha chance di vittoria. E di divenire sempre più establishment.

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