Polverizzando una solida maggioranza di 23 mila voti ottenuta nel 2019, il partito liberal-democratico ha annientato i conservatori e si è aggiudicato il seggio di North-Shropshire, nelle West Midlands. Che le elezioni suppletive di giovedì 16 dicembre sarebbero state una sconfitta per il partito conservatore e una disfatta per il suo leader Boris Johnson, sondaggi e bookmaker lo anticipavano da giorni.

Ma la portata del crollo è notevole. In inglese il gioco di parole riesce meglio, ma visto lo scandalo sulle feste di Natale organizzate “illegalmente” l’anno scorso a Downing street quando il resto del paese era in lockdown, la battuta anche se un po’ banale ci sta: the party is over.

Non soltanto perché per la prima volta dall’estensione del suffragio nel 1832, nel collegio di North-Shropshire non viene eletto un conservatore. Lo stacco ottenuto dal candidato LibDem, Helen Morgan, poi è uno fra i più consistenti di tutta la storia elettorale inglese. Ma soprattutto perché lì avevano votato senza nessuna esitazione a favore dell’uscita dall’Ue e ora, con altrettanta convinzione, mandano a Westminster una deputata del partito liberaldemocratico, l’unica formazione politica che, al contrario del Labour, non è indietreggiata di un centimetro rispetto all’opposizione alla Brexit.

Le ragioni del crollo

Chiaro che il tonfo dei conservatori non si spiega semplicemente con questa inversione, ma appare altrettanto lampante dalla mancata riconferma di quei 23 mila voti che ormai la Brexit è stata completamente digerita e non potrà più essere usata come mito fondativo e collante elettorale. Le conseguenze per il partito di Boris sono dunque gravi.   

Le ragioni della sconfitta sono molteplici e possono essere riassunte nella generica perdita di fiducia nei confronti del primo ministro, chiaramente non soltanto a causa dei “festini” di Natale. In breve, un calo del consenso dell’opinione pubblica e al contempo una perdita di fiducia da parte del partito e della sua maggioranza. Anche se, va detto, le rivelazioni sul “partygate” non sembrano esaurirsi. L’ultima in ordine di tempo riguarda Simon Case, incaricato da Johnson di fare chiarezza, il quale pare però abbia egli stesso organizzato il proprio “party di Natale”, motivo per cui si è dimesso venerdì pomeriggio.

La crisi sanitaria del resto è tutt’altro che sotto controllo e il tasso con cui crescono giornalmente i contagi è allarmante. Allo stesso tempo, se il Natale pare essere “salvo”, almeno formalmente, il suggerimento di rimanere a casa ed evitare le zone affollate non soltanto ha innescato inevitabilmente una crisi nel settore dell’ospitalità, ma il fatto che il cancelliere dello scacchiere non abbia ritenuto di tornare dalla California, replicando insomma lo stesso errore del ministro degli esteri durante la crisi afghana l’estate scorsa, aggiunge la beffa al danno.

Poi ci sono le ragioni politiche di più lungo corso. Le presunte capacità taumaturgiche di Boris Johnson hanno funzionato quando la complessità politica richiedeva una ipersemplificazione come per la campagna referendaria e alle elezioni del 2019, ma sembrano inesistenti quando c’è bisogno di una azione di governo convincente e persistente.

Johnson è stato capace di radicalizzare il partito e l’elettorato su posizioni binarie intorno alla questione della Brexit e su questa ha costruito il suo messaggio vincente nelle zone tradizionalmente laburiste. Quella spinta si è però ormai esaurita, esacerbata dalle promesse irrealizzabili e dalle panzane grossolane che ha propinato negli ultimi mesi per pararsi le spalle.   

Quanto questa vittoria dei LibDem sia una buona notizia per l’opposizione e per il partito laburista è però cosa diversa. Il partito liberaldemocratico storicamente aveva sempre vinto nelle elezioni suppletive, agendo come una sorta di proxy per il Labour e funzionando storicamente come una tappa intermedia nel riposizionamento dell’elettorato verso sinistra.

Tanto che il partito laburista agli inizi degli anni novanta, prima della vittoria di Blair, lo aveva insistentemente corteggiato. Se con la scelta di entrare in coalizione coi conservatori nel 2010 questo vantaggio era andato completamente perso, con le elezioni di giovedì scorso sembra che i LibDem abbiamo riconquistato la loro tradizionale posizione raccogliendo la preferenza “tattico” di chi, sapendo che il Labour non ce la avrebbe mai fatta o su stessa indicazione del partito ora decisamente spostatosi al centro con Starmer, ha preferito non disperdere il proprio voto.

E infatti, puntuali come il mal di pancia dopo aver mangiato troppa cioccolata, sono arrivati gli attacchi dei corbynisti a Starmer accusato di non essere stato in grado di capitalizzare la crisi dei conservatori e di aver dato indicazione ai parlamentari laburisti di votare a favore delle nuove misure anti-Covid presentate dal governo.

Nel quadro di un sistema elettorale punitivo come il maggioritario inglese, il voto tattico dunque ha un enorme potenziale. Le prossime elezioni politiche non sono imminenti, ma già una parte del partito laburista ha rilanciato la campagna per la costruzione di una Alleanza progressista fra il partito verde, i Lib-Dem e i laburisti.

Inevitabilmente questa scatenerebbe una scissione a sinistra, e non soltanto dei pochi corbynisti rimasti. Quanto una prospettiva progressista larga possa trasformarsi in una strategia vincente a livello nazionale senza formalizzare una vera alleanza elettorale fra il Labour e i LibDem è dunque la vera sfida che ora Starmer ha davanti. C’è ancora tempo; ma non troppo.

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