Valdis Dombrovskis in Europa è sempre stato uomo d’acciaio. Vicepresidente della Commissione europea, ha la delega al commercio, che a Bruxelles non è cosa da poco: questo è anzi uno dei pochi ambiti nei quali la Commissione Ue ha competenza esclusiva. Nel bene e nel male, Dombrovskis è decisivo: quando gli Stati Uniti hanno imposto all’Unione europea i dazi sull’acciaio, è lui che ha incassato; e viceversa, c’era lui, durante il G20 dell’ottobre 2021 a Roma, a portare a casa la mediazione con Joe Biden. E l’intesa, alla fine, su acciaio e alluminio, è stata trovata. Falco pro austerità – l’acciaio è anche questo – fa la parte del poliziotto cattivo quando si tratta di riforma del patto di stabilità: a seguire il dossier per la Commissione assieme a lui c’è Gentiloni, al quale resta il lato accomodante. Valdis Dombrovskis ha insomma accompagnato l’Unione europea nei più importanti snodi e crisi, sedendo in Commissione da quasi un decennio. Ma ora gli tocca una faccenda che è complicata persino per lui: la relazione con la Cina. 

Il viaggio cinese

Durante la sua spedizione in Cina, che durerà ancora qualche giorno, Dombrovskis ha incontrato il vicepremier He Lifeng. Come quando si va a mediare, entrambi sono partiti dai motivi di scontro: per il vicepresidente della Commissione Ue, l’affondo era sulle condizioni di accesso al mercato cinese per le imprese europee; prima di incontrare il suo omologo, Dombrovskis ha lanciato segnali di «preoccupazione» per un «ambiente sempre più politicizzato» e per leggi come quella sullo spionaggio la cui ambiguità a suo dire crea problemi alle nostre imprese. 

Per i vertici cinesi invece, la ragione di irritazione più recente è l’annuncio fatto da Ursula von der Leyen a metà settembre – durante il discorso sullo stato dell’Unione 2023 – su una inchiesta per indagare i sussidi cinesi alle auto elettriche. «È Bruxelles che deve intraprendere azioni concrete per fermare il suo crescente protezionismo», mette in bocca a «esperti» il cinese Global Times, dando la versione di Pechino. 

Il dialogo di alto livello, economico e commerciale, è ripreso in presenza dopo gli anni della pandemia. Sintomo di una vitalità ritrovata, ma in un contesto che nel frattempo si è complicato, con gli Stati Uniti che si preparano a fronteggiare la Cina, e l’Ue che si barcamena. 

L’Europa riluttante

Ci aveva provato, infatti, la presidente più americana d’Europa, a proiettarsi dritta verso lo scontro frontale contro Pechino, soprattutto durante il suo incontro di marzo con Joe Biden. Ma i governi europei l’hanno redarguita. Così von der Leyen ha rimpiazzato lo scenario del “decoupling” – il disaccoppiamento da Pechino – con la retorica del “de-risking” (riduzione dei rischi).

Nel frattempo in questi mesi i vari paesi europei si sono mossi in ordine scomposto. La Germania, dopo aver dovuto divorziare dalla Russia, cerca approcci nuovi ma al contempo ha un’economia a previsione negativa e la produzione automobilistica in calo: l’idea dell’indagine di von der Leyen non ha certo entusiasmato, dalle parti di Berlino.

Emmanuel Macron, dopo aver tentato invano il viaggio in coppia con Olaf Scholz, che ha preferito andar da solo, ha tentato pure lui la missione con i suoi di dirigenti d’impresa, e si è appaiato a Ursula von der Leyen. Ne è tornato con un pasticcio diplomatico: sull’aereo di ritorno ha ventilato posizioni terze dell’Ue nello scontro Usa Cina e ne è uscito con le ossa (diplomaticamente) rotte. E l’Italia di Giorgia Meloni? Negozia cooperazione in vista dell’uscita dal memorandum sulla via della seta.

Ora Dombrovskis parla di «strategie di apertura» da mantenere – e pensa soprattutto all’accesso delle nostre imprese al mercato cinese – ma al contempo esprime perplessità e deve bacchettare la Cina per come si è atteggiata sul dossier Ucraina. Stavolta la missione è troppo dura pure per i commissari d’acciaio.

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