L’alibi meloniano per un ingresso di Viktor Orbán nel gruppo dei Conservatori europei consiste innanzitutto nella velleità di riportare il miglior amico europeo di Vladimir Putin sulla retta via filoatlantica. Eppure non è stato il lungo incontro notturno in hotel con Giorgia Meloni, alla vigilia del Consiglio europeo del primo febbraio, a garantire che gli ungheresi sblocchino finalmente l’ingresso della Svezia nella Nato, con l’ennesima calendarizzazione in aula per il prossimo lunedì.

Si è dovuto muovere il premier svedese, questo venerdì, con il suo omologo ungherese che sottolineava anche pubblicamente, in conferenza stampa, l’importanza del gesto: «È davvero cosa rara che un primo ministro svedese venga in visita in Ungheria!», ha detto Orbán. E non soltanto Ulf Christiansson si è dovuto prestare ad andare a Budapest come Matilde a Canossa, e siglare un preciso accordo; ma pure i colleghi di regione di Orbán lo hanno pressato negli scorsi giorni. O l’Ungheria ratifica l’ingresso svedese nella Nato, oppure il premier ungherese può scordarsi la reunion di Visegrad: è la condizione posta dal premier ceco Petr Fiala, e infatti l’incontro si terrà alla fine martedì, a voto d’aula compiuto.

Soprattutto, gli Stati Uniti hanno fatto sentire il proprio peso e fatto presente la propria irritazione in svariate forme, compresa quella pubblica per voce del loro ambasciatore a Budapest David Pressman. Si è mossa pure una delegazione parlamentare bipartisan di alto livello, volata da Washington alla capitale ungherese (e ufficialmente snobbata dall’autocrate).

Gli ostacoli e l’accordo

Nella conferenza stampa Christiansson-Orbán di questo venerdì, i due premier hanno sciorinato il loro accordo: l’Ungheria comprerà quattro aerei militari svedesi Gripen, saranno avviate nuove cooperazioni, e soprattutto lunedì il parlamento ungherese dovrebbe finalmente ratificare il sì alla Svezia nella Nato.

Orbán era rimasto ormai l’unico a frenare quell’ingresso. A fine gennaio aveva scritto a Christiansson – quando ormai anche la Turchia aveva dato il via libera – chiedendogli un passaggio in Ungheria; ma il ministro degli Esteri svedese aveva replicato che non vedeva di che negoziare.

Così il 5 febbraio il tema è stato sì calendarizzato al parlamento ungherese, ma per finire in un nulla di fatto: i parlamentari orbaniani di Fidesz non hanno preso parte alla sessione. Con la visita di questo venerdì del premier svedese a Budapest, e coi cronisti che chiedevano conto delle giravolte, l’autocrate ungherese ha così risposto: «Non è che abbiamo cambiato idea. È che abbiamo attraversato un processo».

Pressman e le pressioni

Il 1° febbraio l’ambasciatore statunitense a Budapest, David Pressman, ha avuto un incontro strategico sulle relazioni Usa-Ungheria con il segretario di stato americano Antony Blinken. Pochi giorni dopo, Pressman era alla sessione straordinaria del parlamento ungherese alla quale gli orbaniani sono venuti meno: «Non era presente un solo membro di Fidesz. Ne va della sicurezza dell’Ungheria, degli Usa e dell’intera alleanza Nato. Attendiamo con ansia l'azione urgente dell'Ungheria».

Due settimane dopo – il 18 febbraio – dall’ambasciatore è sbarcata una delegazione bipartisan del Senato Usa. «Amareggia che funzionari governativi e parlamentari di Fidesz abbiano rifiutato di incontrarla», ha puntualizzato quel giorno Pressman.

Già ad aprile scorso si era fatto portavoce dell’intenzione americana di intervenire contro la mina impazzita Orbán anche con sanzioni, che si erano materializzate inizialmente in interventi contro la banca internazionale di investimenti russa con sede a Budapest. «Abbiamo attraversato un processo», per dirla con Orbán.

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