Governi come quello francese e gruppi politici come la destra dei popolari europei spingono il discorso pubblico sul tema del riarmo e dell’aumento delle spese militari. Ora l’innesco è Donald Trump. Ma la storia si ripete ciclicamente: la crescita dei fondi pubblici europei rivolti ai colossi dell’industria militare è puntellata da inneschi simili a questo.

Prima del possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca, c’era la guerra in Ucraina, e prima ancora, l’esodo dall’Afghanistan, definito dall’Alto rappresentante Ue Josep Borrell come il momentum della difesa europea. Dall’inizio degli anni Duemila, la progressiva trasformazione dell’Ue – nata come marchingegno politico per disinnescare la guerra – in una architettura bellica avvantaggia soprattutto poche grandi imprese come Leonardo, Indra, Safran, Thales e Airbus. Con la campagna elettorale per le europee e la platea imprenditoriale da imbonire, il tema viene spinto in cima all'agenda politica e mediatica.

L’allerta Trump

«Gli alleati europei stanno spendendo di più, stiamo facendo molti progressi», ha detto questo mercoledì Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato, che dopo aver prorogato la fine del suo mandato dovrebbe lasciare quest’anno la guida dell’alleanza; l’ex premier olandese Mark Rutte è tra i papabili per sostituirlo, e ha ammesso pubblicamente di essere interessato alla carica.

Con i ministri della Difesa dei paesi Nato riuniti a Bruxelles, fino a giovedì compreso, per discutere di prospettive future assieme all’industria militare, Stoltenberg si è premurato di precisare che lascia in eredità un’organizzazione nella quale gli europei già stanno spendendo di più. «L’anno scorso abbiamo assistito a un aumento senza precedenti: parliamo di una crescita dell’11 per cento da parte degli alleati europei», ha fatto i conti il segretario generale. Stoltenberg ha sottolineato anche che sono ben 18 su 31 paesi i membri della Nato che raggiungono quest’anno la soglia del due per cento del Pil per le loro spese militari, mentre un decennio fa solo tre paesi raggiungevano quest’obiettivo.

Il 2014 ha rappresentato l’anno chiave nel quale i membri Nato hanno promesso di far lievitare il bilancio per la difesa al due per cento del Pil, per l’appunto. L’esibizione di cifre da parte di Stoltenberg vuol essere una risposta alla botta arrivata da Donald Trump. Con l’ambizione di tornare alla Casa Bianca, lo scorso 10 febbraio durante un comizio il repubblicano ha simulato una conversazione, che a suo dire avrebbe avuto con il leader di un importante paese: «Se non paghiamo e veniamo attaccati dalla Russia, ci proteggerete?» Risposta di Trump: «Non hai pagato? Sei un delinquente. No, non ti proteggerei. Anzi, incoraggerei i russi a fare quel che diavolo gli pare».

Le affermazioni erano un messaggio agli alleati europei della Nato che non avessero speso a sufficienza, non raggiungendo il bersaglio del due per cento. Ed erano di fatto anche un segnale a Vladimir Putin: per usare le parole di Stoltenberg questo mercoledì, «non dobbiamo minare la credibilità della deterrenza Nato, perché i nostri avversari fanno calcoli sulla base di questa, e non si può lasciar spazio a equivoci con Mosca sulla nostra preparazione». A ogni modo le parole di Trump hanno riaperto il tema della capacità di spesa militare europea. «Alcuni alleati devono fare di più; a Vilnius avevamo deciso che il due per cento dev’essere il minimo per tutti»: è comunque questa la conclusione di Stoltenberg.

Corsi e ricorsi

L’attitudine trumpiana non è nuova: quando era presidente, se ne usciva con attacchi ai membri Nato, da lui definiti «nullafacenti» e «free rider» del potere Usa. Pagare di più o essere abbandonati: questo era il messaggio ieri, e lo è anche ora. L’Unione europea rischia di restare sola persino quando si era impegnata anzitutto per seguire gli Usa. Un caso eclatante è stato quello dell’addio all’Afghanistan, che gli Stati Uniti di Biden hanno consumato in modo frettoloso senza neppure coordinarsi bene con gli alleati europei. Ma pure col dossier ucraino, i tentennamenti del Congresso sui nuovi finanziamenti a Kiev – incertezze mosse proprio dai trumpiani – fanno sì che l’Ue debba considerare l’ipotesi di restare da sola.

L’Alto rappresentante Borrell ha detto espressamente che bisogna contemplare la possibilità di perdere il sostegno di Washington, mentre il cancelliere tedesco Olaf Scholz si è mostrato intenzionato a colmare i vuoti, in termini di aiuti a Kiev, che gli Usa avrebbero lasciato. Già a fine gennaio, il plenipotenziario dei popolari europei, Manfred Weber, aveva fiutato il clima e lo aveva cavalcato: «Adesso si tratta di essere concreti, dobbiamo prepararci alla guerra anche senza gli Usa». E citando lo scudo nucleare aveva agganciato su questo la Francia: «Accettiamo l’offerta di Macron per ragionare su come l’armamento nucleare francese possa essere integrato nelle strutture europee».

Anche quando si è trattato di chiedere la riforma dei trattati, il Ppe ha spinto per «un bilancio europeo dedicato a unità militari». Roberta Metsola, presidente dell’Europarlamento scelta nel Ppe con beneplacito di Weber, ed eletta anche coi voti dei meloniani, segue la scia weberiana e incalza: «Trump ci minaccia, per guidare il mondo libero serve un nuovo bilancio per la difesa Ue», ha detto lunedì, facendo la felicità dell’industria militare.

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