Questa estate, cioè un anno e mezzo dopo l’inizio della pandemia, la Commissione europea ha stilato una comunicazione che ha un titolo impegnativo: “Lezioni tratte dalla pandemia”. In realtà in quel documento Bruxelles non fa autocritica sui punti più controversi, ad esempio sulla sua mancanza di trasparenza; in compenso rivela bene le sue intenzioni. Il piano è quello di trasformare in sistema quella che è stata all’inizio la risposta d’emergenza. Il rischio è che pure i difetti diventino sistematici.

L’epidemiologo d’Europa

Tra le novità che Bruxelles mette in cantiere c’è lo European chief epidemiologist, il “capo epidemiologo d’Europa”. Di che si tratta? Nell’era dei comitati tecnico-scientifici e degli epidemiologi star, anche l’Unione europea non è da meno. Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione, ha infatti già un epidemiologo di riferimento, che è il belga Peter Piot. Entro fine anno vuole rafforzare questa figura e cambiare governance. Il nuovo capo epidemiologo europeo sarà una figura di raccordo per gli esperti scelti dai vari stati membri, comunicherà direttamente all’opinione pubblica e «farà da raccordo tra scienza ed elaborazione politica». Avrà insomma più poteri. Il timore di alcuni europarlamentari è che, sotto l’aura tecnica, il capo intraprenderà decisioni pure politiche, sfuggendo però al coinvolgimento degli eletti.

Ema e i dati mancanti

L’Unione europea intende anche rafforzare il mandato dell’agenzia europea del farmaco, Ema, la stessa che autorizza o meno i vaccini. Il punto è che però, prima di estenderne il mandato, bisognerebbe colmare le lacune. Almeno così la pensa una ampia maggioranza di eurodeputati, che con ben 578 voti favorevoli la scorsa settimana hanno chiesto «di rendere pubblici i risultati e i dati delle sperimentazioni cliniche». Come mai questo appunto? Perché quando autorizza l’immissione sul mercato di un vaccino, in teoria Ema dovrebbe già rendere pubblici i dati clinici: è obbligata a farlo. Eppure, nonostante siano passati molti mesi dalla prima autorizzazione, che risale a dicembre, sul sito dell’agenzia ad oggi sono stati resi pubblici i dati clinici (i trial) di un solo produttore, Moderna.

Più soldi e poco controllo

Come vengono spesi i soldi in fase di emergenza? La lezione tratta da questa pandemia è che dal lato della Commissione la trasparenza è poca. La commissione Controllo bilancio dell’Europarlamento chiede da mesi e mesi tutte le informazioni sull’uso del denaro pubblico nei contratti sui vaccini, ma in cambio ottiene solo risposte lacunose. Al contempo Bruxelles vuole attrezzarsi per poter replicare lo stesso schema, e anzi di più, con più rapidità e «flessibilità». Durante la pandemia, e per esempio per comprare i vaccini, Bruxelles ha fatto ricorso allo “emergency support instrument”, uno strumento di bilancio da attivare in caso di crisi; ora vuole «renderlo più facile da attivare». Significa avere i soldi più facilmente a disposizione, mentre però permane un problema di trasparenza e di controllo democratico. C’è poi un grande progetto di cui non sono chiari i dettagli, visto che la Commissione deve ancora mettere sul tavolo una proposta legislativa, ma che è sicuramente tra le priorità di Bruxelles. Quel progetto si chiama “Incubatore Hera”; Hera sta per Health Emergency Preparedness and Response Authority. Di che si tratta? In teoria, di una struttura che dovrebbe rafforzare la nostra capacità di reagire alla pandemia.

Con i privati

Con le parole della Commissione, Hera «fornirà una struttura permanente per la gestione del rischio, la sorveglianza globale, il trasferimento tecnologico, la capacità manufatturiera, la ricerca e produzione di vaccini». Insomma, un mandato ampio. Che verrebbe messo in mano a una partnership pubblico-privato: «Al cuore di questo approccio c’è la necessità di unire sforzi pubblici e privati», di «lavorare col settore privato, con finanziamenti flessibili e strumenti di acquisto». Hera dovrebbe gestire quindi anche il finanziamento di ricerca e sviluppo, oltre che l’acquisto, dei vaccini. E nasce già con le corporation dentro. Un sistema che non funziona, e che orienta le politiche pubbliche verso gli interessi delle grandi aziende; un caso scuola è quello della Innovative Medicines Initiative (Imi), una partnership sviluppata da Bruxelles con Big Pharma già nel 2008. Corporate Europe Observatory ha documentato per anni che questa iniziativa, dove vengono immessi soldi dei contribuenti ma la governance è opaca e i privati co-decidono la strategia e come usare i fondi, si è rivelata fallimentare. Lezioni non tratte dalla Commissione.

Contratti e vaccini

L’ultimo accordo concluso dall’Ue per i vaccini è stato siglato con Pfizer per la consegna di 1,8 miliardi di dosi da qui al 2023. «Altri contratti seguiranno!», ha detto Ursula von der Leyen. Ciò che non ha detto è che nell’ultimo contratto il prezzo che paghiamo per ogni dose è aumentato del 25 per cento, e che questo accordo è stato negoziato con lo stesso grado di opacità dei primi contratti. In una analisi comparata di respiro globale, Transparency International ha già evinto che l’Ue è stata tra i meno trasparenti in fatto di contratti. Se possiamo analizzarli – virtù e soprattutto difetti – è grazie alle pressioni di eurodeputati e società civile, che hanno ottenuto versioni pur in parte annerite, e dei whistleblower che hanno consentito il leak dei testi integrali. Oggi The Left, la sinistra all’Europarlamento, presenterà uno studio la cui conclusione è che quei contratti, per come li ha stilati Bruxelles, non tutelano l’interesse pubblico. Un esempio concreto è dato dalla tedesca CureVac, il cui vaccino non è ancora autorizzato, e che coi soldi degli europei ha gonfiato i profitti in borsa; i ricavi, che nel 2019 erano di 10,6 milioni, sono cresciuti del 304 per cento (42,8 milioni) nei primi nove mesi del 2020. Se Ema non dovesse approvarne il vaccino, molti fondi pubblici non verrebbero comunque restituiti.

© Riproduzione riservata