Il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni ha un piano per riformare le tasse d’Europa. Un pacchetto di iniziative da snocciolare fino al 2023 «aggiornerà sistemi fiscali del secolo scorso, che risalgono a prima della digitalizzazione e persino prima della globalizzazione». L’avvertimento è anzitutto alle multinazionali: «Vogliamo ridurre frodi ed elusione fiscale, far pagare le tasse dove si realizzano i profitti e non dove viene collocata la sede legale, imporre una tassazione minima per evitare una competizione sleale fra i sistemi fiscali che ci danneggia l’un l’altro», dice il commissario. Si tratta di recuperare miliardi di euro: 46 miliardi all’anno l’Europa li perde per l’evasione da parte di individui, circa 50 sgocciolano via per l’elusione fiscale da parte delle aziende. Ma c’è altro.

Fiscalità e pandemia

Mentre l’attuale premier Mario Draghi, da presidente della Bce, si è fatto ricordare per il suo «whatever it takes» in piena crisi dell’euro, oggi Gentiloni ha scandito il suo «it’s now or never», adesso o mai più. La crisi stavolta è quella pandemica, e l’«ora o mai più», riferito alla riforma della governance fiscale e alla congiuntura favorevole del cambio di amministrazione negli Usa, riguarda in realtà anche il futuro dei fondi di ristoro. Da tempo il commissario lascia intendere che il bilancio europeo allargato sperimentato con Next generation Eu va replicato, sempre che il primo tentativo funzioni bene. Per Gentiloni questo meccanismo di spesa pubblica e indebitamento comuni va reso strutturale, e in questo trova un alleato proprio nell’ex capo della Bce. Nel suo discorso di insediamento come premier, Draghi ha perorato «un bilancio comune che sostenga i paesi nei periodi di recessione». Perché l’indebitamento comune non si traduca in un carico sulle spalle delle prossime generazioni, servono entrate fiscali comuni «robuste», per Gentiloni. La sua riforma della governance fiscale non è solo un modo per mettere le briglie alle multinazionali, ma anche per dotare l’Unione di solide risorse proprie.

Iniziative concrete

I patti fiscali siglati quando al governo del Lussemburgo c’era Jean-Claude Juncker hanno consentito a 340 grandi aziende come Fiat, Pepsi, Ikea di pagare tasse irrisorie a discapito degli altri paesi europei. Le soffiate di Antoine Deltour e lo scandalo LuxLeaks del 2014 hanno consentito all’Ue di recuperare poi milioni di euro. All’Europa il “sistema dei paradisi” costa tuttora miliardi, e i paradisi si trovano anche nell’Ue stessa: in Lussemburgo appunto, ma pure in Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro. La prima iniziativa concreta di Bruxelles è la comunicazione adottata già oggi. La «Business Taxation for the 21st Century» mette nero su bianco il fallimento del sistema fiscale attuale: «Oggi, anche per la digitalizzazione che la pandemia non fa che accelerare, un business si può svolgere anche in un luogo dove l’azienda non ha la sua sede». Il gettito fiscale va quindi distribuito equamente. «La mancanza di un sistema fiscale comune nel mercato unico produce uno svantaggio competitivo». Perciò Bruxelles proporrà un insieme di regole fiscali comuni, battezzato come “Befit”, che rimpiazza la proposta precedente (“Ccctb”). Non solo le multinazionali dovranno essere trasparenti sulle aliquote che pagano, ma con Befit il gettito sarà ripartito più equamente tra gli stati membri. Nel mirino ci sono le società prestanome e l’elusione fiscale, ma anche una disomogeneità di regole che complica la vita alle pmi.

Acceleratore Biden

Per poter avere risorse proprie, l’Ue ha in mente pure le tasse su digitale (“digital levy”) ed emissioni (“carbon border adjustment mechanism”). Queste “tasse europee” servono ad assorbire l’indebitamento comune del Next Generation Eu. C’è poi l’idea di imporre una aliquota minima alle corporation, che si intreccia con il dibattito su una riforma fiscale globale.

«La nostra proposta ci sarà comunque, ma quel che succede a livello globale è uno straordinario catalizzatore», dice Gentiloni. Biden si è mosso per un prelievo del 21 per cento sui profitti delle aziende Usa che operano all’estero (“global minimum tax”) e il cambio alla Casa Bianca facilita ora le convergenze. Un futuro accordo globale in sede di Ocse e G20 si articolerà in due pilastri, uno sull’accumulazione di profitti dove l’azienda non ha la sede, e l’altro per una tassazione minima; e si tradurrà, nel caso Ue, in due direttive. Quanto è vicino l’accordo? Gentiloni: «Un primo accordo di principio non c’è ancora ma è possibile, e – con la presidenza italiana del G20 – probabilmente già al G20 di luglio a Venezia potrà essere concluso. C’è una forte volontà politica tra i principali attori. Poi l’implementazione effettiva di una convenzione richiederà tempo».

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