Il tasso di inflazione dell’Eurozona continua a calare. In settembre si è fermato al 4,3%, quasi un punto in meno del dato di agosto. Nello scorso anno la riduzione dell’inflazione è stata quasi esclusivamente dovuta al venir meno dei fattori che avevano alimentato la fiammata inflazionistica (colli di bottiglia, energia, ripartenza post pandemica), che oggi non mordono ormai più. C’è infatti un ampio consenso, tra gli economisti, sul fatto che le politiche monetarie impiegano diversi trimestri prima di influenzare la domanda, la crescita, la dinamica dei prezzi. Oggi la restrizione monetaria avviata più di un anno fa inizia a farsi sentire: l’aumento dei tassi ormai pesa su consumi e investimenti e spesa pubblica, contribuendo quindi al calo dell’inflazione.

Il livello dell’inflazione è ancora superiore all’obiettivo del 2% che la BCE si è data nei primi anni Duemila, e questo spinge la BCE a persistere nella restrizione. Nonostante il rallentamento dell’economia, in dicembre potrebbe esserci un altro aumento dei tassi.

I lettori del Diario Europeo sanno che molti, tra cui chi scrive, hanno fin dall’inizio argomentato che fosse sbagliato affrontare l’inflazione con la restrizione monetaria. Altri strumenti, più mirati a livello microeconomico, sarebbero stati più efficaci e meno dolorosi per affrontare un’inflazione strutturale, dovuta a squilibri settoriali e non a un surriscaldamento generalizzato dell’economia. Tuttavia, che sia per l’inerzia di governi ben felici di delegare alla BCE, o per vecchi riflessi di tipo monetarista che, minoritari nell’accademia, rimangono purtroppo influenti nel dibattito pubblico (l’inflazione è sempre causata da “troppa moneta a caccia di troppi pochi beni”), le banche centrali rimangono le protagoniste della lotta all’inflazione. Occorre allora cominciare a trarre le lezioni non solo dal recente episodio inflazionistico, ma anche dal lungo periodo precedente, tra la crisi del 2008 e il 2019, in cui la BCE ha cercato senza successo di far aumentare il tasso di inflazione che ballava pericolosamente sull’orlo della deflazione (vale a dire un tasso di inflazione negativo).

Trarre le lezioni delle tante crisi

Alcuni economisti, tra cui il premio Nobel Paul Krugman e l’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard, sostengono che le banche centrali dovrebbero rivedere l’obiettivo di inflazione, portandolo dal 2% al 3%. Ricordiamo che l’obiettivo del 2%, introdotto in Nuova Zelanda nel 1989 e poi adottato da quasi tutte le principali banche centrali, non ha nessun fondamento particolare; si è semplicemente creduto che fosse sufficientemente basso per tranquillizzare i mercati sulla stabilità dei prezzi, lasciando un margine di aggiustamento: in caso di shock negativi, infatti, il tasso di inflazione può calare senza andare in territorio negativo, innescando pericolose spirali deflazionistiche.

Gli argomenti a favore di un aumento dell’obiettivo di inflazione sono fondamentalmente due. Il primo è contingente: se l’inflazione è calata in modo relativamente indolore dai livelli a due cifre di un anno fa a valori del 4-5%, portarla dal 4% al 2% può rivelarsi molto più complicato. Potremmo insomma essere in una situazione in cui si rimane invischiati in tassi di inflazione che ballano tra il 2% e il 3% o anche un po’ oltre. Questi livelli non creano particolari problemi di instabilità (in termini di aspettative ad esempio), per cui potrebbe non valer la pena di forzare l’inflazione a tornare al 2% pagando un costo elevato in termini di crescita e occupazione.

In un mondo nuovo i vecchi obiettivi sono irraggiungibili

La seconda ragione per una revisione del tasso di inflazione desiderato è più strutturale. L’obiettivo del 2% poteva apparire ragionevole durante il lungo periodo della Grande Moderazione, quando tassi di crescita del Pil stabili (sia pur non stellari) implicavano fluttuazioni limitate del tasso di inflazione. In realtà, tuttavia, quel periodo di apparente stabilità macroeconomica ha covato crescenti squilibri come, ad esempio, una tendenza cronica all’eccesso di risparmio e quindi a tassi di interesse reali di equilibrio sempre più bassi.

Dal 2008 siamo entrati in una nuova fase in cui gli squilibri sono venuti alla luce e gli shock macroeconomici sono divenuti più brutali. In un contesto di maggiore instabilità le banche possono trovarsi a dover ridurre significativamente i tassi di interesse. Se questi inizialmente sono moderati, aumenta il rischio di cozzare contro quello che gli economisti chiamano il limite inferiore dei tassi, il fatto che questi non possono scendere significativamente sotto lo zero. È questa la situazione in cui la Fed e la BCE si sono trovate a lungo, dovendo quindi ricorrere, per stimolare l’economia, a politiche non convenzionali come gli acquisti di titoli. Un tasso d’inflazione obiettivo più elevato consentirebbe di avere tassi di interesse in condizioni normali anch’essi più elevati, e più margine di manovra per ridurli quando necessario. Questo margine aggiuntivo potrebbe rivelarsi prezioso nel probabile caso in cui i prossimi anni ci riservino accresciuta instabilità macroeconomica e geopolitica.

Inoltre, fattori strutturali come la transizione ecologica potrebbero nei prossimi anni portare a tassi di inflazione spontaneamente più alti che in passato (ad esempio a causa dei costi maggiori associati alle energie fossili). Ostinarsi a puntare ad un’inflazione del 2% potrebbe richiedere lunghi periodi di restrizione monetaria ostacolando l’investimento nelle rinnovabili e paradossalmente perpetuando le tensioni inflazionistiche legate alla transizione.

Il problema della credibilità

A questi argomenti, ragionevoli, chi è contrario ne oppone principalmente uno, altrettanto ragionevole. In un mondo come quello delle banche centrali, in cui la credibilità è tutto, cambiare l’obiettivo di inflazione in corso d’opera potrebbe essere devastante, di fatto una confessione d’impotenza: non potendo saltare l’altezza che mi ero prefisso, abbasso l’asticella. Inoltre, quanto credibile può essere una banca centrale che annuncia un tasso obiettivo del 3%, quando tra il 2008 e il 2020 non è stata capace di salire dall’1% al 2%?

La soluzione, dunque, sembra essere solo una. Per questo giro di giostra c’è purtroppo poco da fare e bisogna rassegnarsi a pagare i costi dell’incauto impegno delle banche centrali a tornare al 2% di inflazione. I governi e le politiche di bilancio dovrebbero quindi essere pronti ad attutire questi costi con politiche dei redditi e redistribuzione fiscale, per proteggere i più vulnerabili. Una volta preservata la propria credibilità dimostrando che sono state capaci, whatever it takes, di riportare l’inflazione al 2% tuttavia, le banche centrali dovrebbero prendere atto che siamo in un nuovo mondo e procedere rapidamente con una revisione dei propri obiettivi.

© Riproduzione riservata