Stiamo davvero tornando ai tempi del Winter of Discontent, l’«inverno dello scontento» di fine anni Settanta? Quegli scioperi inglesi erano l’anticipazione di uno scontro ancor più duro tra mondo del lavoro e destra di governo. Per capire dove va l’Europa nel 2023, bisogna cercare la risposta proprio nel Regno Unito di Brexit, alla periferia del continente. Come noi europei, anche i britannici stanno fronteggiando un costo della vita che aumenta ben più degli stipendi. E come nell’Ue, questo squilibrio incide su un welfare già sotto pressione. Le proteste si diffondono ovunque, e a Londra come a Budapest, tra i leader c’è chi reagisce limitando il diritto di sciopero. Nell’isola di Margaret Thatcher, questa dinamica sta già deflagrando.

La grande ondata di scioperi

Sul calendario di gennaio sono già appuntati tanti scioperi. L’agenda di dicembre è stata piena di proteste come non accadeva da tempo nel Regno Unito. L’onda è iniziata a ottobre, quando oltre 400mila giornate lavorative sono saltate per protesta; e il 2022 si chiude con un numero di iniziative insuperato dal 1989. Ora lo scontro tra i lavoratori e il neo-premier conservatore Rishi Sunak è totale. Trasporti, insegnanti, postini, infermiere: dalla Royal Mail al National Health Service, non esiste fiore all’occhiello dei servizi pubblici britannici che non sia stato toccato dalle proteste.

Non accennano a diminuire, anzi: «È sempre più chiaro a tutti che il governo scatena questi scontri. Protesteremo in modo sempre più sincronizzato, nel 2023 ci sarà un’escalation di scioperi», ha detto Mark Serwotka, il leader sindacale dei funzionari pubblici, salutando l’anno in arrivo.

Tendenze ed emergenze

Il motivo degli scioperi è anzitutto l’ammontare degli stipendi, che resta congelato da anni a dispetto della fiammata inflazionistica. La grande confederazione dei sindacati britannici (il Tuc) stima che la paga reale – cioè lo stipendio per il suo effettivo potere di acquisto – sia più bassa oggi che nel 2008.

«Oltre un decennio di salari stagnanti ha contribuito alla crisi attuale, lasciando molte persone incapaci di far fronte a un improvviso aumento dei prezzi», è l’analisi di Alex Collinson, che fa ricerca per Tuc. Alle responsabilità di lungo termine – «insicurezza lavorativa, salari bassi, pessime condizioni di lavoro» – si aggiunge l’innesco attuale: il caro prezzi. A ottobre, con i primi scioperi, l’inflazione superava l’11 per cento, gli aumenti nominali erano al 6.

La chiave inglese

Ma questo è il valore medio. Se si passa ai dipendenti pubblici, il divario è più feroce: gli aumenti sono inferiori al 4 per cento, il che – vista l’inflazione – significa in media almeno duecento euro al mese in meno di paga reale. Nel 2022 il salario reale di un’infermiera è calato di 2mila euro. A dicembre la categoria ha organizzato il suo sciopero più imponente in tutta la storia dell’Nhs. E il servizio sanitario è tutto in subbuglio; a gennaio torna a protestare il personale delle ambulanze.

Sunak fa muro: «Gli aumenti di stipendio produrrebbero inflazione», dice, e non si sposta dai suoi «no». Può sembrare incredibile, ma su due punti l’attuale premier è persino più oltranzista di Thatcher: neppure la lady di ferro che fece guerra ai minatori aveva osato posizioni troppo drastiche verso l’Nhs, il cui processo di privatizzazione è partito solo dopo il 1990. L’Nhs ha un valore sentimentale per i britannici, che ne vanno orgogliosi, e umiliare le infermiere dopo una pandemia può essere controproducente per Sunak.

Mentre i leader sindacali lo accusano di «ripescare dagli anni Ottanta il libretto di istruzioni di Thatcher», i commentatori del Financial Times avvertono: perlomeno la iron lady «non trattava ogni lotta allo stesso modo, risolveva qualche disputa ed era dura su altre, Sunak invece dice no a qualsiasi negoziato», come scrive Stephen Bush. Dal suo punto di vista, questo è un limite dell’attuale premier; ma per i lavoratori in lotta, si sta rivelando un fattore unificante.

Il caso britannico rappresenta una sveglia anche per noi europei. Ci mette in allerta su tre fronti palesi a Londra ma vivi anche nell’Ue: il mix esplosivo di caro prezzi e condizioni di lavoro inadeguate, che produce tensioni sociali; il peso degli squilibri che ricade su servizi pubblici già infragiliti; e infine i tentativi illiberali di minare il diritto di sciopero.

Le derive illiberali e l’Europa

Già con il premier dell’austerity, David Cameron, e con il suo Trade Union Act del 2016, sono state imposte restrizioni alla mobilitazione sindacale. Quest’autunno, quando gli scioperi sono iniziati, la meteoritica Liz Truss ha pianificato di limitarli. Ora che l’onda cresce, Sunak dichiara guerra al diritto di sciopero con nuove «leggi dure». Per garantire i servizi che «salvano vite», non vuol aumentare le paghe ai dipendenti pubblici, ma impedire loro di protestare.

Su questo, anche l’Ue ha i suoi cattivi maestri: già a febbraio scorso, il governo Orbán ha adottato un decreto col quale ha mutilato il diritto di protesta, obbligando gli insegnanti a tenere almeno la metà delle lezioni; quando hanno protestato lo stesso per le paghe troppo basse, sono scattati i licenziamenti.

Il calendario degli scioperi è fitto anche nell’Ue, e c’è da scommettere che le tensioni non faranno che aumentare: gli europei lasciano il 2022 con salari nominali cresciuti in media del 4,4 per cento, ma i piatti delle feste hanno un sapore assai più salato: la farina è aumentata del 32 per cento, le verdure del 20. E il nodo di fondo restano le disuguaglianze, dice la confederazione dei sindacati europei: tutto è partito da «un caro energia dal quale in pochi hanno tratto profitti mega».

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