La tragedia di Pylos mette l’Europa di fronte alla sua inadeguatezza, restituendo amplificate le immagini che avevamo visto solo qualche mese fa a Cutro. Si parla di 600 vittime presunte, tra cui 100 bambini. Oggi, come già avvenuto in altre occasioni, il dibattito si concentra sul rimpallo di accuse tra autorità nazionali, colpevoli di non aver prestato soccorso tempestivamente ed efficacemente, e Unione europea, rea di non sostenere adeguatamente gli sforzi degli stati membri, soprattutto quelli più esposti agli arrivi.

Così sfugge o resta sullo sfondo la questione centrale della responsabilità, che impegna insieme l’Unione e i governi nazionali a trovare una risposta convincente alle ricadute drammatiche di un fenomeno strutturale come quello della migrazione.

L’obbligo di salvare vite in mare costituisce infatti un principio fondamentale del diritto internazionale, codificato in diversi trattati sottoscritti dai paesi europei: «Non è opzionale», come ha ricordato la presidente della Commissione europea nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2020.

Su queste basi la Commissione aveva presentato un Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, sul quale proprio qualche giorno fa il Consiglio dei ministri della Giustizia e degli Affari Interni ha trovato un primo accordo, che però riguarda soltanto alcuni aspetti del Patto, come le procedure di confine e il meccanismo di solidarietà obbligatoria.

L’accordo, tra l’altro, è stato raggiunto a maggioranza qualificata, senza Ungheria e Polonia. Ma quello che più preoccupa è la direzione generale verso la quale si sta muovendo la politica migratoria europea, spinta da molti governi, tra i quali quello italiano di Giorgia Meloni. Ovvero la convinzione che si possano fermare i migranti (o comunque rimpatriarli più facilmente) attraverso una cooperazione più stretta con i paesi di origine e transito.

Non soltanto questa cooperazione non può darsi per scontata, come testimoniato dal numero crescente di arrivi attraverso la rotta del Mediterraneo centrale (raddoppiato rispetto alla scorso anno) e come confermato dal fallimento della recente visita di Meloni, von der Leyen e del premier olandese Mark Rutte in Tunisia (da dove parte più della metà dei migranti nel 2023). Ma distoglie l’attenzione dalla necessità per l’Unione europea di dotarsi di un meccanismo interno credibile per affrontare e gestire il fenomeno, a partire dai salvataggi in mare.

Il coordinamento tra l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera Frontex, incaricata delle attività di monitoraggio, e le autorità nazionali, responsabili di quelle di ricerca e salvataggio, ha dimostrato di non funzionare. Il prezzo pagato è stato altissimo, e si conta con le vite umane perse in fondo al mare nostrum. È arrivato il tempo di una nuova missione europea sul modello dell’operazione Sophia che, dispiegata nel Mediterraneo tra il 2015 e il 2020, ha salvato 45mila persone grazie al contributo di 26 Stati membri operanti sotto una catena di comando unica.

Gli strumenti ci sono: potrebbe essere una nuova missione nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comune dell’Unione, oppure si potrebbe decidere di potenziare il mandato delle missioni Frontex. Ma serve un impulso politico forte che parta dai governi e dalle forze politiche più attente alla dimensione umanitaria e più consapevoli della complessità della questione migratoria.

Appaltare a paesi terzi, spesso troppo fragili o autoritari, la sua gestione è un obiettivo fallace e allo stesso tempo non è all’altezza delle ambizioni morali e strategiche del progetto europeo.

 

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