Jean-Luc Mélenchon vuole riprendersi tutto ciò che in Francia la sinistra si è fatta scappare: l’Eliseo, la lotta di classe, il popolo e il populismo. La destra ha rubato alla gauche persino il dizionario. La estrema destra di Éric Zemmour cita Antonio Gramsci e l’egemonia culturale, mentre gli ultraconservatori europei fanno la loro internazionale: anche la storica cassetta degli attrezzi della sinistra, è finita in tutt’altre mani.

Il punto è che il leader de La France insoumise sta tentando una missione quasi impossibile: la sinistra in Francia, manco a dirlo, è divisa, e non è detto che il popolo la segua ancora. C’è chi riconosce in Mélenchon un carisma che seduce, chi un egocentrismo che frammenta. Ma mentre il fondatore del partito, deputato, candidato alle presidenziali del 2022, si gioca il tentativo di risollevare la sinistra in Francia, intanto una giovane classe dirigente “insoumise”, cioè indomita, costruisce la risalita su scala europea. «Ci siamo mobilitati per rispondere ai fallimenti del partito socialista e per offrire una leadership rinnovata a sinistra», dice da Bruxelles l’eurodeputata insoumise Manon Aubry, che è anche la copresidente del gruppo della sinistra europea; è la più giovane – classe 1989 – ad aver assunto un incarico simile in Europa.

Prima di tutti

Lui c’è sempre stato. Mélenchon era lì, in lizza per le presidenziali del 2022, praticamente già da un anno. «Ho un programma, ho una squadra. Sono pronto a governare il paese»: queste parole si depositano sulle pagine dei quotidiani francesi già a novembre 2020, quando ancora i titoli dei giornali sono praticamente vergini di candidature. Per dare un’idea dei tempi, Anne Hidalgo, la sindaca di Parigi, la socialista che piace almeno alla sinistra della capitale, ufficializzerà soltanto questa domenica la propria corsa all’Eliseo; lo farà in terra amica, nella Rouen governata dal sindaco-alleato Nicolas Mayer-Rossignol. L’ex ministro socialista Arnaud Montebourg si è lanciato ufficialmente questo 4 settembre; ha promesso, con tanto di slogan, «la remontada». Ma a dimostrazione che a sinistra c’è più folla di nomi che di voti, un sondaggio Ipsos ha accolto così la sua candidatura: rilevando che Montebourg può puntare al massimo al 2 per cento, mentre «in ogni caso nessun candidato di sinistra ha chance di superare il dieci». Ma questa previsione infausta non ha comunque dissuaso Fabien Roussel a farsi avanti per il Partito comunista francese (Pcf), che nel 2017 scelse di convergere su Mélenchon. Stavolta a quanto pare no, e qualcun altro si getterà nell’arena prossimamente. Gli ecologisti devono ancora fare le loro primarie, persino in due turni: primo giro dal 16 al 19 settembre, selezione finale tra il 25 e il 28, infine un nome su cui convergere.

Il leader de La France insoumise è lì, pronto al pit stop, con «un programma, una squadra», da mesi e mesi. Per non dire del tempo che ha passato in politica: praticamente una vita, e sempre a sinistra nella sinistra, finché alle scorse presidenziali non è diventato lui la sinistra maggioritaria, con il 20 per cento al primo turno. Certo, è arrivato quarto; ma Emmanuel Macron, primo dall’inizio, aveva preso il 24 per cento, mentre Marine Le Pen sorpassava l’insoumise solo di poco più di un punto, e la destra dei Républicains di neppure mezzo. Soprattutto, con questa sfilza di candidati di destra, Mélenchon fu l’unico segno di sopravvivenza a sinistra. Il partito socialista, con Benoît Hamon, uscì dalle scorse presidenziali asfaltato: solo al sei per cento. Pagava i conti dell’era di François Hollande, che Mélenchon conosce bene. Nel 1997, quando erano entrambi in lizza come segretari socialisti, non solo Hollande stravinse, ma non gli riconobbe neppure tutti i voti che lui si aspettava: «Voleva vederci umiliati, non glielo perdonerò mai», dice in un video dell’epoca. Mélenchon, che negli anni Settanta partecipa alle lotte studentesche e operaie ma rifiuta – «non ci ho mai creduto» – l’idea di avanguardismo, di fatto sente e anticipa, con le sue fuoriuscite e i suoi posizionamenti, tutte le inadeguatezze della sinistra di sistema. A inizio Duemila, da dentro il partito socialista, accusa «la socialdemocrazia europea di assecondare il neoliberismo»; all’epoca di Ségolène Royal candidata, lui va “in cerca di sinistra” – En quête de gauche è il libro che pubblica nel 2007 – e l’anno dopo, nel cercarla, se ne esce pure dal partito socialista. «Non possiamo prestare il fianco alla destra»; così cofonda il Parti de gauche. Eurodeputato dal 2009 al 2017, ma sostenitore pentito del trattato di Maastricht, critico sulla moneta unica, animatore del “no” al referendum sulla Costituzione europea del 2005 e tuttora intenzionato a riformare i trattati europei, alle scorse presidenziali ha fatto della sua abitudine al dissenso non un limite ma il suo ariete di sfondamento.

L’«era del popolo»

La «unione popolare» e l’«avvenire comune», le peuple, il popolo: anche in queste presidenziali Mélenchon rivendica il populismo. «Lui prova a prendere questo termine nel suo significato originario, mentre oggi lo ha scippato l’estrema destra. Che però – a cominciare da Marine Le Pen – ha un elettorato piuttosto borghese e utilizza come travestimento l’essere “popolare” mentre annulla la dimensione della lotta di classe», dice Lynda Dematteo, antropologa dell’Ehess. Lei che ha condotto indagini etnografiche tanto sull’Italia leghista quanto sugli States di Trump, dice che «il termine populismo nasce a fine Ottocento per indicare il movimento populista americano, che coinvolge organizzazioni sindacali e porta avanti istanze di ribellione popolare». Tecnicamente Mélenchon ha ragione, secondo Dematteo: «Il populismo è più suo che di Le Pen, anche se ormai rivendicare questo termine rischia di creare confusione».

Come hanno fatto prima di lui leader come Bernie Sanders, la France insoumise utilizza idee radicali che hanno una lunga storia ma «è nata proprio per portare un rinnovamento», dice da Bruxelles Manon Aubry, copresidente del gruppo della sinistra europea. Il suo collega eurodeputato Manuel Bompard, anche lui nato negli anni Ottanta, guida la campagna per l’Eliseo. Perché ricandidare un veterano della politica come Mélenchon e non tentare con la nuova dirigenza? «Jean-Luc è una figura conosciuta, tenuta in gran considerazione nei quarteri popolari – dice Aubry – ma non si giudica un libro dalla copertina, e il suo programma, la sua équipe, guardano al futuro».

Col futuro Mélenchon ha dimestichezza: nel 1989, da senatore, propone il «contrat de partenariat civil»; è respinto, ma anticipa i “Pacs”, le unioni civili, di dieci anni dopo. Più di dieci anni fa, stravende in libreria la sua arringa contro le élite, Qu’ils s’en aillent tous!. Alla campagna del 2017 è il primo in assoluto a fare comizi con il dono dell’ubiquità: uno lo tiene in presenza, l’altro tramite un ologramma. Usa le piattaforme internet con tale dimestichezza che a fine 2016 il suo canale YouTube ha più seguaci di Donald Trump e Hillary Clinton. E come Bernie Sanders, fa del digitale un prezioso alleato di mobilitazione e di campagna. Non è solo forma: che ci si debba coalizzare con gli ecologisti, Mélenchon lo sosteneva a inizi anni Novanta. La giustizia climatica è tra le sue priorità dichiarate da oltre un decennio. Mentre l’estrema destra prova a scippare egemonia culturale e internazionale, questa domenica sera lui, l’insoumise, si presenta sul palco di Ostenda con il Partito del lavoro belga (Ptb) per discutere di come arginare «l’autoritarismo dell’estrema destra».

In Europa l’internazionale a sinistra esiste? Risponde Aubry, che il gruppo della sinistra europea lo guida: «La gauche non ha affatto abbandonato il suo ideale internazionalista. Noi siamo l’alternativa a un discorso di destra che si fonda sul rigetto dell’altro. In Ue siamo contro l’austerità, la politica supina al libero mercato e alle corporation, Big Pharma compresa. Siamo per la giustizia climatica e per quella sociale». Per rispondere a sfide come queste, secondo Aubry, «dialogare con la sinistra in Portogallo, in Spagna, in Italia… è fondamentale». Ancora in cerca di sinistra, En quête de gauche, come titola quel libro il cui autore è appunto Mélenchon.

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