Il presidente alza il tiro sull’Ucraina. Lo scenario di un disimpegno statunitense in Europa combacia con i piani dei leader europei per far lievitare i fondi per l’industria bellica. «Meno parole, più missili», dice Kallas
«Possiamo farlo con le buone o con le cattive»: se la Russia non si decide ad andare verso un accordo sull’Ucraina, Trump minaccia di «farle molto male economicamente». Sanzioni, barriere doganali, heavy economic pain. Il comandante in capo ha fretta di chiudere: aveva promesso che la guerra in Ucraina sarebbe finita in 24 ore, e quelle ore sono passate; persino il suo incaricato chiede cento giorni, e si rischia il pantano. Quindi – pugni sul tavolo almeno con le parole – il presidente Usa dice che bisogna parlarsi, e fare in fretta. Dichiara: «Se non facciamo un accordo, e presto, non avrò altra scelta che alzare tasse, dazi, sanzioni, su qualsiasi cosa la Russia venda agli Usa».
E mentre Trump fa pressione sul Cremlino, intanto tra i leader europei serpeggia non il dubbio, ma la certezza che questa partita li coinvolgerà direttamente. Sia per garantire la sicurezza dell’Ucraina, che per l’aumento delle spese per la difesa.
Gli effetti sul continente
A Bruxelles ci si aspetta un rapido disimpegno degli Usa nel continente: nelle stesse ore in cui Trump spedisce più soldati in Messico, in Ue si sparge la voce che il presidente voglia tagliare del venti per cento (circa 20mila divise) la presenza di truppe statunitensi in territorio europeo, e chiedere agli stati europei un contributo finanziario per tutti i soldati Usa che invece restano.
Nel frattempo – per restare al passo con le promesse fatte in campagna – il nuovo inquilino della Casa Bianca fa pressione su Putin perché vuole chiudere al più presto (per gli Usa) il dossier ucraino. Non a caso questo mercoledì Zelensky ha detto che «qualsiasi forza di peacekeeping in Ucraina deve includere gli Usa»: evidentemente teme una fuga lampo degli americani, memore dell’uscita dall’Afghanistan (anche questa figlia del trumpismo) e di altre esperienze. Non è un mistero che Trump voglia che l’Ue aumenti i propri contributi all’Alleanza atlantica, a costo di minacciare di uscirne se così non fosse: quei contributi erano già stati innalzati al 2 per cento del Pil e ora si parla del 5.
Più missili con soldi pubblici: la risposta dei vertici dell’Ue alla nuova amministrazione Usa è in fondo una risposta vecchia, la stessa che la presidente della Commissione Ue e alcuni capi di governo spingevano già prima del trionfo di Trump. L’inno ad aumentare le spese per l’industria militare era già nei piani. Non significa che in Europa nulla stia cambiando, anzi. Il vitalismo esibito da Donald Tusk questo mercoledì davanti all’Europarlamento, sommato agli slanci militaristi dell’alta rappresentante Kaja Kallas, ex premier estone, hanno fornito una immagine vivida di quanto l’asse si stia spostando (a est) all’interno dell’Ue stessa.
Poco importa quanto forti siano le scelte lessicali che Emmanuel Macron ha operato questo mercoledì all’Eliseo, nella sua dichiarazione assieme al cancelliere uscente Olaf Scholz: chi può credere ancora alle promesse del duo francotedesco per «una Europa forte e unita», dopo che sono state ripetutamente disattese, e che ormai neppure a livello domestico il presidente e il cancelliere hanno forza politica? Assieme al trumpismo in Usa, riprende vigore in Ue quel vecchio schema thatcheriano: l’idea di un’Europa sempre più protesa a est, per ragioni geopolitiche, ma pure sempre meno legata agli ideali spinelliani di un federalismo politico.
Al primo summit europeo dopo la vittoria di Trump, Viktor Orbán ha parlato con rimpianto del fatto che «a un certo punto il Regno Unito sia uscito dall’Ue»: era un paese forte ed euroscettico. Le arrembanti destre estreme ambiscono a rimpiazzare Londra nel sabotaggio dell’integrazione politico-democratica.
«Meno parole, più missili»
«L’Europa deve e può essere forte, il tempo della spensieratezza è finito. Certo, è difficile separarcene, un po’ come superata l’infanzia ci allontaniamo dai genitori e doppiamo occuparci da soli della nostra sicurezza». Sono parole pronunciate da Tusk davanti agli eurodeputati a Strasburgo. Se possibile ancor più esplicita è stata la nuova alta rappresentante Ue Kaja Kallas: «Spendiamo miliardi per scuole, salute, welfare, ma è tutto inutile senza spese in difesa». E ancora: «Il presidente Trump ha ragione quando dice che non spendiamo abbastanza; è tempo di investire». Last but not least: «Per decenni l’Europa ha prodotto documenti strategici, piani e dichiarazioni. Adesso è tempo di passare a più missili, più carrarmati, più navi militari».
Basta manifesti, è tempo delle armi, dice in sintesi Kallas. I paesi baltici, così come la Polonia a prescindere dal colore politico dei governi, spingono per l’aumento delle spese per la difesa, e Ursula von der Leyen ha riempito di «falchi» la sua nuova Commissione. Ma su questo tema, la linea espressa da Tusk e Kallas intercetta pure la principale ambizione macroniana, che ha guidato anche i negoziati sulla riconferma di von der Leyen: ottenere più fondi Ue per la propria industria bellica.
Su questo anche i Popolari europei concordano da tempo, e l’arrivo di Trump è solo l’innesco perfetto di una tendenza già in corso. Basti pensare che a marzo scorso, alla vigilia del congresso Ppe che la avrebbe consacrata per un secondo mandato, von der Leyen aveva portato alle imprese «un segnale forte»: il pacchetto per l’industria della difesa.
A ben guardare, non esistono grandi oppositori al piano di aumentare le spese per la difesa e di iniettare più fondi pubblici europei verso i colossi dell’industria militare. Le uniche perplessità che arrivano a essere udite riguardano il quadro finanziario. Giorgia Meloni ad esempio dice da tempo che non si può chiedere maggiore impegno per la difesa mantenendo gli stessi vincoli sull’indebitamento; probabilmente è proprio di questo che – subito dopo essere stata all’inaugurazione di Trump – ha parlato con il presidente del Consiglio europeo António Costa, che prepara un apposito summit per il 3 febbraio.
E la questione del deficit intreccia anche le preoccupazioni di Scholz, espresse questo mercoledì in occasione dell’anniversario del trattato dell’Eliseo (era il 22 gennaio 1963 e de Gaulle e Adenauer lavoravano per disinnescare guerre): «Nuovi aiuti a Kiev sono possibili solo allentando i vincoli sul deficit».
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