Forse mai esplicitamente quanto questo lunedì, l’Alto rappresentante Ue Josep Borrell ha espresso la sua insofferenza per la condotta del governo Netanyahu. Mentre il conflitto in Medio Oriente si esaspera e si estende, anche la reazione dell’Unione europea dovrebbe in teoria maturare di conseguenza. Ma a dispetto degli sforzi di Borrell – che oltre ai ministri degli Esteri europei ha chiamato a raccolta al Consiglio Ue anche quelli israeliano e palestinese, e lega araba, sauditi, egiziani, giordani – la fatica e la lentezza di una reazione comune europea risultano fuori tempo rispetto alla durezza e all’urgenza degli eventi.

Le divisioni fra governi, emerse subito dopo il 7 ottobre, hanno come conseguenza di medio periodo la debolezza cronica dell’Europa.

Il piano di Borrell

Basta una scena, per rendere l’idea. Arrivando in Consiglio, l’alto rappresentante è stato interrogato dai cronisti: Borrell ritiene che non si debba semplicemente parlare di un processo di pace, bensì provare a rendere concreta la soluzione a due stati; ma il governo israeliano continua a ribadire di non voler saperne, dunque come pensa di fare l’Ue? L’Alto rappresentante ha risposto: «E cosa pensa di fare invece Israele? Uccidere tutti i palestinesi? Mandarli via tutti?».

Poco dopo, nella sala del vertice, il ministro degli Esteri israeliano ha mostrato ai suoi omologhi europei il video di un progetto per un’isola artificiale. Fonti diplomatiche hanno riferito che il progetto sarebbe atto pure a raccogliervi i palestinesi. Pare che l’unico entusiasta in sala sia stato l’ungherese Péter Szijjártó, il ministro degli Esteri noto per i suoi rapporti cordiali con Mosca, membro di uno dei governi più oltranzisti nel sostegno a Netanyahu, cioè il governo Orbán.

Davvero il ministro israeliano vuol mandare i palestinesi su un’isola artificiale?, hanno chiesto i cronisti a Borrell. Lui non ha negato; si è limitato a constatare che «il ministro Israel Katz ci ha presentato alcuni video che avevano poco o nulla a che vedere col tema in discussione». Avrebbe potuto «sfruttare meglio il tempo a disposizione, per preoccuparsi della sicurezza del suo paese e dell’elevato numero di morti a Gaza». Il caso è diventato così sconvolgente che in serata Katz ha consegnato una smentita al Times of Israel: «Non ho mai detto che c’è un piano per mandare lì i palestinesi».

Un’agenda comune

Il divario tra il governo Netanyahu e la posizione dell’Alto rappresentante Ue è lampante. Borrell ha denunciato «il numero eccessivo di morti, per il 70 per cento donne e bambini»; ha fatto presente che «così non si sradica Hamas, ma semmai si semina odio futuro»; ha detto che «la stabilità non si costruisce solo con strumenti militari» e che «comunque questo non è il modo di usarli»; ha preso posizione a sostegno delle Nazioni unite e delle agenzie Onu: «Parte del personale ha perso la vita; non siamo d’accordo con le critiche arrivate dal governo israeliano».

Oltre alle parole ci sono i fatti: c’è il tentativo di dar seguito all’idea della conferenza di pace, spinta dalla Spagna e approvata in Consiglio europeo. C’è il lavoro per una soluzione a due stati – «non chiamatelo piano per la pace in 10 punti, né in 12, perché la cosa è più complessa» – e la determinazione di procedere nonostante la contrarietà del governo israeliano. «Le dichiarazioni di Netanyahu sono inquietanti», ha detto pure il neo ministro degli Esteri francese Stéphane Séjourné.

Ma accanto a queste posizioni, al Belgio o alla Spagna che chiedono il cessate il fuoco, continuano a esserci stati di peso come la Germania che mitigano le reazioni verso Netanyahu. Le divisioni interne traspaiono anche nell’eterna vicenda della missione nel mar Rosso. Su questo dossier, la Spagna aveva messo un veto per controbilanciare la linea Usa pro Israele. Ora pare ci sia accordo per una missione comune, «il che non significa che tutti parteciperanno», come ha detto Borrell. Inoltre bisogna ancora capire «il come e il quando». Nel frattempo la guerra si allarga, mentre la voce dell’Ue resta fioca.

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