In un momento cruciale per l’Unione europea, con la guerra che la lambisce, il leader europeo che ha più assonanze con Vladimir Putin e che ha condotto un’intera campagna elettorale coprendone il ruolo di aggressore, non solo viene riconfermato al potere ma stravince. «Abbiamo vinto così tanto che può essere visto forse dalla luna, certamente da Bruxelles», dice Viktor Orbán ai piedi della “balena”, la Balna, il centro dove Fidesz ha il quartier generale nel frangente elettorale. 

«Forse non siamo mai stati belli come questa sera. Abbiamo ottenuto una vittoria enorme».

Tra i supporter che lo accolgono con urla e ovazioni c’è chi brandisce enormi croci, la celebrazione della vittoria è una liturgia nazionalista: Orbán mescola le citazioni di Donald Trump, con un «prima l’Ungheria» che evoca l’«America first», e le canzoni patriottiche che risalgono al 1848 e a Lajos Kossuth. 

L’opposizione annichilita

Mentre la piazza di Orbán si gonfia, si svuota il presidio dell’opposizione che è dietro piazza degli Eroi, proprio dove una volta Orbán da liberale invocava l’uscita delle truppe sovietiche. Oggi, da sodale di Putin e ideologo della democrazia illiberale, Viktor Orbán non lascia argine al suo strapotere: all’opposizione non resta quasi nulla. Non ha battuto Orbán, non gli ha impedito di ottenere una maggioranza in parlamento. E anzi il premier supera i due terzi dei seggi, oltrepassa i risultati del 2018, rafforza il suo presidio nel paese. L’opposizione non è riuscita neppure a fare argine all’estrema destra, che entra in parlamento. Péter Márki-Zay, il candidato alla premiership che ha sfidato Orbán con sei partiti alle spalle, ha perso pure nel distretto nel quale concorreva lui stesso. E a giudicare dal fatto che nessun leader di partito lo ha raggiunto sul palco nel discorso della sconfitta, non rimane neppure il premio di consolazione di un fronte che resta compatto dietro di lui.

Un’Ungheria sempre più a destra

Ecco quindi come si risveglia l’Ungheria lunedì 4 aprile: con il 98 per cento dei voti scrutinati, il blocco di governo (Fidesz e l’alleato Kdnp) oltrepassa il 53 per cento di voti; i sei partiti  di orientamento composito -Jobbik, Coalizione democratica, Dialogo, Momentum, verdi di LMP e partito socialista – che si sono uniti per scalfire lo strapotere del premier sfiorano il 35. Il partito di estrema destra Mi Hazánk, “Il nostro paese”, di natura estremista e fuori dal blocco di opposizione, riesce a catalizzare oltre il sei per cento di voti e porta in parlamento sette eletti.

Viktor Orbán può contare non più su 133 seggi su 199, come nel 2018, ma stavolta ben 135; e l’opposizione, compatta in modo inedito, esce con 56 eletti per sei partiti messi insieme. In più c’è l’estrema destra che trova un cospicuo presidio in aula.

Zelensky, Putin e l’Ue

Viktor Orbán ha costruito una narrazione parallela dove lui è uomo di stabilità e di pace, mentre l’opposizione vuole andare in guerra e il costo dell’energia senza di lui non può che salire.

Alla vigilia delle elezioni, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è rivolto a lui con accuse mirate: «A Orbán manca l’onestà intellettuale, l’ha forse persa a Mosca? L’Ungheria non solo non consente il transito di aiuti, ma non fa nessuno sforzo contro la guerra. Non esercita neppure leadership morale». A elezioni concluse, il premier ungherese nel discorso di vittoria inserisce Zelensky tra gli «avversari» che ha dovuto affrontare – e battere – in queste elezioni. Il suo braccio destro, Zoltán Kovács, che è segretario di stato per le relazioni internazionali, alla domanda se questi risultati schiaccianti siano un messaggio a Bruxelles risponde che «è la prova che siamo forti e quando rappresentiamo i nostri interessi ci sono gli ungheresi dietro». Si riferisce agli «interessi nazionali», dice. E il messaggio, parafrasando, è che questo voto rafforza le posizioni orbaniane nel contesto europeo. Come risponderà l’Ue?

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