Ci sono due nomi che in questi giorni Viktor Orbán rifiuta di pronunciare. Uno è quello del suo avversario alle elezioni di domenica. Péter Márki-Zay è il candidato premier di un’opposizione unita dalla volontà di spodestare il leader di Fidesz, che governa l’Ungheria ininterrottamente dal 2010 e concentra sempre più potere nelle sue mani. A Márki-Zay il premier ungherese riserva piuttosto l’epiteto di «clown», ma in generale lo rimuove dai suoi discorsi. Non lo nomina, né gli concede un confronto faccia a faccia. Nella propaganda orbaniana esiste «solo Fidesz», «csak a Fidesz», come recita il suo slogan elettorale.

L’altro nome rimosso, per motivi opposti, è quello di Vladimir Putin. Con il presidente russo, Orbán ha sviluppato da molti anni un sodalizio di interesse. Ora che la guerra in Ucraina rende questi legami difficili da sostenere, il premier ungherese fa ciò che gli riesce meglio: l’equilibrista. Si mostra abbastanza allineato nei consessi europei per non restare del tutto isolato, ma anche abbastanza ondivago con Putin così da mantenere sintonie con Mosca. Agli elettori vende il solito nemico, cioè Bruxelles, per non confondere la sua base. L’unico punto su cui Orbán resta lineare è la determinazione a mantenere il potere.

Il legame con Putin

Tra i migliori alleati di Putin nel continente ci sono due leader con derive autoritarie che si giocano la rielezione domenica: il presidente serbo Aleksandar Vucic e il premier ungherese. Dimenticato il suo passato da giovane liberale che si scagliava contro le truppe sovietiche, Orbán ha stipulato l’alleanza pragmatica con Mosca prima della sua elezione del 2010. Le basi: un primo incontro con Putin nel 2009 e un altro nell’aprile 2010. All’epoca Orbán vedeva tre potenzialità: quella ispiratrice, perché ammirava la capacità del Cremlino di concentrare a sé i gangli dell’economia del paese; quella tattica, perché il premier ungherese era convinto che un ruolo di mediatore con Mosca aumentasse il suo potere negoziale anche a Bruxelles e Berlino; e quella economica che dall’accordo del 2013 con Rosatom per un nuovo reattore nucleare in Ungheria, arriva fino a quello più recente di aprire al vaccino russo. In cambio, l’Ungheria garantisce a Mosca, tra le altre cose, un ruolo destabilizzatore: il sostegno di Orbán (e di Vucic) ai piani separatisti di Milorad Dodik in Bosnia ed Erzegovina è uno dei tanti esempi, per non parlare del tentativo orbaniano di fare di Budapest il laboratorio illiberale d’Europa.

La «strategia doppia»

L’ultima visita di Orbán al Cremlino ha preceduto di pochi giorni l’invasione. Il premier ungherese è andato da Putin con l’obiettivo di aumentare per sé le forniture di gas russo, per poter usare gli sconti in bolletta come arma pre-elettorale per sedurre gli ungheresi. Putin non gli ha fatto grandi concessioni, e lo scoppio della guerra ha reso ancor più difficile per Orbán il business as usual con la Russia: bisognava decidere – sulle sanzioni contro Mosca, sugli aiuti a Kiev – e di conseguenza allinearsi.

I fatti dicono che il premier ungherese non sta usando il suo potere di veto per bloccare le sanzioni nei consessi europei. Minaccia di farlo solo sul tema dell’embargo energetico, ma perché sa che neppure Berlino e altre capitali vogliono davvero lo stop al gas russo. Al contempo però l’Ungheria non fornisce alcun aiuto militare, neppure non letale, all’Ucraina, né consente il passaggio degli aiuti altrui dalla propria frontiera. Per questo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha detto al premier ungherese: «Devi decidere con chi stai».

Ma a quanto pare Orbán, che risponde chiamandolo «attore» e lo attacca tramite la stampa amica, crede di poter evitare ancora la decisione. «Usa una strategia doppia», dice lo studioso ungherese Daniel Hegedus, che si occupa di Europa centrale nel German Marshall Fund. «Nei consessi decisionali europei, prova a dare l’idea di essere un partner costruttivo, allineato sui punti chiave. Ma il suo rifiuto di fornire aiuti militari a Kiev e il modo in cui i media vicini al governo fanno da sponda alla narrativa filorussa dimostrano un tentativo di mantenere rapporti bilaterali con Mosca. Un balancing act nel suo stile».

Le elezioni e la Russia

La sua propaganda elettorale non contempla alcun riferimento a Putin l’aggressore, mentre gli affondi contro l’Unione europea non mancano: «Non siamo dei perdenti che hanno paura dei media internazionali o di Bruxelles! Combatteremo!». Combatte con Bruxelles, Orbán, e allo stesso tempo predica «pace» evitando lo scontro, anche solo verbale, con la Russia. La strada scelta del premier per la sua campagna è quella di «non confondere la base elettorale di Fidesz», spiega Hegedus. «Avrebbe potuto fare una virata strategica ma sa di aver ormai abituato i suoi supporter alla sua politica aperta verso Mosca, la base di Fidesz ormai ragiona così, e rinnegare tutto questo in modo esplicito significherebbe riconoscere un proprio fallimento». Per lo stesso motivo Orbán mantiene anche la sua narrazione nazionalista e anti Ue, vendendo come propri successi le scelte europee e giustificando in chiave patriottica la sua strategia ondivaga. «Non siamo indifferenti alla guerra, ma questa è una situazione pericolosa e stiamo dalla parte dell’Ungheria: c’è chi vuole che Nato e Ue facciano parte del conflitto, noi siamo per la pace perché siamo per i nostri interessi nazionali». La campagna elettorale del premier spaccia la «strategia doppia» per pacifismo e patriottismo.

L’avversario e l’occidente

Nel campo opposto c’è un’opposizione che ora più che mai scommette sul proprio nitido posizionamento filo-occidentale. Márki-Zay, l’anti Orbán, vanta solide connessioni negli Usa, dove prima ha lavorato e poi ha intrecciato rapporti anche da politico. Ed è «filo Ue: per me questa è la prima cosa», dice da tempo. Fosse per lui, l’Ungheria sarebbe anche dentro l’Eurozona. Ex elettore di Fidesz, ben prima che la guerra scoppiasse raccontava di aver capito di non poter più votare il partito di Orbán «quando lui ha incontrato Putin».

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