Diversi paesi dell’Unione europea stanno ripristinando controlli alle frontiere, con conseguenti limiti alla libera circolazione nello spazio Schengen. Queste decisioni, adottate a livello nazionale, dimostrano che l’Ue è lontana da quell’unità che dovrebbe connotarla. Lo spazio Schengen – dal nome di un villaggio del Lussemburgo dove è avvenuta la firma dell'accordo e della convenzione, rispettivamente nel 1985 e nel 1990 - è disciplinato dal “codice frontiere Schengen” (regolamento Ue n. 2016/399).

Esso rappresenta la più vasta zona di libera circolazione al mondo. I paesi che ne fanno parte non effettuano controlli alle loro frontiere interne, salvo minacce gravi a ordine pubblico o sicurezza interna, secondo una procedura definita, ed attuano controlli armonizzati alle loro frontiere esterne. Oggi lo spazio Schengen comprende 27 paesi: 23 dei 27 Stati membri dell'Ue (i controlli alle frontiere interne di Bulgaria, Cipro e Romania non sono ancora stati soppressi e l’Irlanda non fa parte dello spazio Schengen) e tutti i membri dell’Associazione europea di libero scambio (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera).

L’eliminazione di «tutti gli ostacoli allo scorrimento fluido del traffico ai valichi di frontiera interna stradali» costituisce uno dei tasselli che realizzano la libertà di circolazione, pilastro dell’Ue. Lo spazio Schengen consente a più di 400 milioni di persone di circolare liberamente tra i paesi che ne fanno parte. Ogni giorno circa 3,5 milioni di esse attraversano le frontiere interne per motivi di lavoro, studio e altro.

Quasi 1,7 milioni risiedono in un paese Schengen mentre lavorano in un altro. Gli europei effettuano ogni anno 1,25 miliardi di viaggi all'interno dello spazio Schengen, con vantaggi anche al settore del turismo e della cultura. Se questo spazio collassasse, i costi sarebbero enormi. Stime della Commissione europea del 2016 quantificano tra 1,3 e 5,2 miliardi di euro i costi aggiuntivi che si avrebbero qualora il meccanismo Schengen subisse impedimenti o venisse meno. Tali costi aumenterebbero il prezzo dei beni che circolano in Europa, quindi si riverserebbero sui cittadini europei.

Le notifiche alla Commissione Ue

Dal 2006 sono state inviate alla Commissione europea 390 notifiche di ripristino di controlli alle frontiere. Di recente, vi hanno fatto ricorso 11 Stati su 27 paesi dell’area Schengen (Italia, Austria, Danimarca, Francia, Germania, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Svezia e Norvegia), con restrizioni motivate da diversi tipi di minacce.

Ad esempio, l’Italia ha spiegato i controlli con la Slovenia, tra l’altro, con «l’aumento della minaccia di azioni violente all'interno dell'Ue a seguito dell’attacco a Israele, il rischio di possibile infiltrazione terroristica, costante, la pressione migratoria via mare e via terra»; l’Austria ha giustificato la decisione anche con una «ampia migrazione secondaria e pressione sul sistema di accoglienza dei richiedenti asilo»; la Svezia tra le varie cause ha citato la «minaccia terroristica islamica» e «recenti minacce da parte di organizzazioni terroristiche»; la Slovenia ha espresso timori per «la situazione in Medio Oriente e in Ucraina, recenti attacchi terroristici in alcuni Stati membri, (…), il rischio di infiltrazione nei flussi migratori misti».

Il mosaico delle numerose decisioni unilaterali sulle frontiere copre una vasta area dello spazio di libera circolazione. In questi casi sarebbe meglio ricorrere a una strategia coordinata a livello europeo. Infatti, se il “meccanismo di valutazione Schengen” - sistema di verifica congiunta tra paesi dell’Ue e Commissione - riscontra gravi e persistenti carenze nei controlli alle frontiere esterne che mettono a rischio il funzionamento complessivo dello spazio comune, il Consiglio può raccomandare che uno o più paesi dell’Ue ripristinino i controlli alle loro frontiere interne. Invece, gli Stati stanno agendo singolarmente, come visto, con una conseguente frammentazione decisionale.

La riforma del codice frontiere Schengen

L’Ue sta procedendo a riformare il codice frontiere Schengen, tra l’altro, mediante la previsione della possibilità di ripristino dei controlli di frontiera nell’area di libera circolazione solo in caso di assoluta necessità, «in risposta a gravi minacce che mettono a repentaglio il funzionamento dello spazio Schengen» e che «colpiscono simultaneamente la maggioranza dei paesi», come per esempio il terrorismo «identificato e immediato». In alternativa ai controlli alle frontiere è prevista la cooperazione delle forze di polizia nelle regioni di confine.

La riforma del codice non basta. Per i rischi terroristici, più che verifiche alle frontiere, contano le azioni di intelligence. Quanto al passaggio di migranti da uno Stato all’altro, determinati per lo più da uno squilibrio nei ricollocamenti tra paesi dell’Ue, bisognerebbe intervenire sul relativo meccanismo del regolamento di Dublino. Tuttavia, il Patto europeo sulle migrazioni, in via di approvazione, non intacca tale meccanismo, poiché prevede che l’accoglienza da parte di Stati non di confine possa essere supplita da compensazioni finanziarie.

Il fatto è che nei momenti di forte pressione migratoria gli Stati posti alle frontiere dell’Europa, come l’Italia, tendono a sottrarsi agli obblighi previsti dal regolamento di Dublino - accogliere chi riesce a entrare irregolarmente nel proprio territorio e valutarne il diritto di asilo - e lasciano passare migranti senza registrarli. Così altri Stati sono indotti a ripristinare controlli ai confini, con l’alterazione del funzionamento dello spazio Schengen. Tali controlli sono, pertanto, solo la punta dell’iceberg di un’Europa che stenta a trovare un’unità che vada oltre mere dichiarazioni di principio. Anche per questo la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dovrebbe essere più cauta quando afferma che, da quando c’è lei, l’Ue ha cambiato verso sull’immigrazione. Il ritorno dei controlli alle frontiere è lì a dimostrarlo.

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