Nei giorni scorsi, la vicenda relativa a Italia e Francia ha fatto emergere un problema che esiste da tempo: la redistribuzione tra gli stati membri dell’Unione europea (Ue) delle persone che arrivano irregolarmente nei paesi di frontiera. Il regolamento di Dublino (n. 604/2013), infatti, pone a carico del primo paese d’ingresso nell’Unione la competenza all’esame delle richieste di protezione internazionale e, quindi, l’onere di accogliere i richiedenti.

L’Ue sta organizzando un vertice per la fine di novembre, che dovrebbe occuparsi anche di ricollocamento dei migranti. Non è la prima volta che l’Ue affronta questo tema, per dare attuazione concreta al principio di solidarietà tra paesi dell’Unione (art. 80 del Trattato sul funzionamento della Unione europea, Tfue). Può essere utile ripercorrere cosa accaduto in passato.

I tentativi di redistribuzione in Ue

AP Photo/Jean-Francois Badias

Nel settembre 2015 il Consiglio dell’Unione europea decise misure temporanee a beneficio dell’Italia e della Grecia, prevedendo che 120mila richiedenti protezione internazionale venissero ricollocati in altri stati membri. Ma nel periodo 2015-2017 furono ricollocati solo circa 24.700 persone (report 2019 della Fondazione Migrantes). Agli scarsi risultati contribuirono le inadempienze di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, poi condannate dalla Corte di Giustizia europea per violazione degli obblighi di ricollocamento.

Nel settembre 2019 è intervenuto l’accordo di Malta , firmato solo da Francia, Germania, Italia, Finlandia e Malta: si trattava di un’intesa fra stati “volenterosi” per la ripartizione dei migranti. Il testo presentava molti limiti: tra l’altro, l’accordo restava in vigore per sei mesi, salvo rinnovo; il ricollocamento riguardava solo gli stranieri salvati in mare, un numero irrisorio rispetto a quelli che arrivano con sbarchi autonomi, cioè circa il 90 per cento; se il numero degli arrivi fosse aumentato in modo sostanziale, il meccanismo sarebbe stato sospeso.

L’esito dell’accordo ha risentito del periodo Covid e delle relative restrizioni. Ma la sua efficacia risultava già compromessa dai limiti sopra evidenziati, nonché dal fatto che l’intesa si basasse su negoziati svolti di volta in volta, in occasione dell’arrivo delle navi, con conseguente ritardo degli sbarchi.

Nel settembre 2020 è stato firmato il Patto europeo su migrazione e asilo, un documento politico, giuridicamente non vincolante, attraverso il quale vengono delineate iniziative, anche di riforma normativa, in materia di gestione delle migrazioni e del diritto di asilo per i prossimi anni.

Da un lato, il patto definisce una “procedura di frontiera”: prima che i cittadini di paesi terzi che attraversano senza autorizzazione le frontiere esterne dell’Ue siano ufficialmente ammessi sul territorio dell’Unione, si prevede vengano assoggettati ad accertamenti; poi, si attiva una procedura di asilo o, se del caso, una procedura unionale di rimpatrio rapido per coloro la cui domanda sia stata respinta alla frontiera.

Dall’altro lato, si dispone un nuovo meccanismo incentrato principalmente sulla ricollocazione (“relocation”) e sui rimpatri sponsorizzati (“return sponsorship”). Si tratta del principio della “solidarietà flessibile volontaria”: gli stati possono mostrarsi “solidali” facendosi carico della ricollocazione del migrante o del suo ritorno al paese da cui proviene o di altro supporto operativo, senza obbligo di accoglienza. Il Patto prevede anche riforme mirate a limitare l’impatto dei «movimenti secondari», cioè quelli dei migranti che si spostano dal paese di primo ingresso ove dovrebbe essere esaminata la loro istanza di asilo, a un altro paese dell’Ue, in contrasto con il regolamento di Dublino.

Infine, nel giugno 2022, a Bruxelles ventuno tra stati membri dell’Ue e stati terzi hanno adottato un accordo di durata annuale, contenente un «meccanismo volontario di solidarietà» per le ricollocazioni di migranti. Tale meccanismo segue lo schema del Patto del 2020: i ricollocamenti sono sempre alternativi ad altre forme di solidarietà (contributi finanziari, aiuti materiali o altro tipo di supporto). L’Italia avrebbe dovuto beneficiare di 3.500 ricollocamenti entro giugno 2023, e finora ne erano stati effettuati 117. Dopo le vicende di questi giorni, la Francia ha sospeso i propri impegni di farsi carico di migranti provenienti dall’Italia.

I ricollocamenti di fatto

AP Photo/Vincenzo Circosta

Il criterio dello stato di primo arrivo, stabilito dal regolamento di Dublino, cui gli accordi di redistribuzione non riescono a ovviare, viene tuttavia superato nei fatti dai migranti che si spostano dal paese di ingresso ad altri paesi dell’Ue (movimenti secondari).

Basti pensare, ad esempio, che nel 2021 sono arrivate via mare in Italia 67.477 persone, ma le richieste di asilo nello stesso anno sono state 43.900 (dati Eurostat). Ciò significa che circa 23.000 persone sono sfuggite alle procedure di registrazione e hanno chiesto asilo altrove. Inoltre, dai dati di Eurodac, il database europeo delle impronte digitali dei richiedenti asilo e di chi attraversa illegalmente i confini, risulta che il 25 per cento dei dati relativi alle impronte digitali trasmesse nel 2021 appartengono a richiedenti asilo che soggiornano illegalmente in uno stato terzo e il 15 per cento è di migranti sorpresi ad attraversare illegalmente la frontiera di uno stato membro.

Dunque, la riallocazione che non si riesce a sancire con il superamento del regolamento di Dublino, viene comunque realizzata in concreto dai migranti che si muovono dallo stato di primo arrivo verso altri paesi, ove risiedono parenti o è più agevole ottenere l’asilo oppure il mercato del lavoro ne consente l’assorbimento. Ma nella narrazione della politica nazionale – che usa parlare di invasione di migranti, nonostante i numeri inferiori rispetto a quelli di altri paesi – il dato sui movimenti secondari, cioè sui ricollocamenti in via di fatto, non emerge praticamente mai.

Le modifiche al regolamento di Dublino

Per sostituire il criterio del paese di primo arrivo con criteri di redistribuzione obbligatoria, e relative sanzioni per gli stati inadempienti, servirebbe modificare il regolamento di Dublino. L’ultimo tentativo è stato nel 2017, quando si provò a eliminare il principio del “primo ingresso” attraverso un meccanismo cogente di ripartizione dei richiedenti asilo, con quote stabilite in base al Pil e alla popolazione di ogni stato dell’Ue. Il tentativo fallì per l’opposizione soprattutto dei paesi del gruppo di Visegrad.

Per modificare il regolamento serve in Consiglio una “doppia maggioranza” (art. 78, c. 2, lett. e, TFUe): la decisione dev’essere approvata dal 55 per cento degli stati membri (15 su 27), che devono contemporaneamente rappresentare almeno il 65 per cento della popolazione dell’Ue. Se l’Italia vuole modificare Dublino, affinché siano alleviati i suoi obblighi come stato di primo arrivo, farebbe meglio a trovare intese con stati insieme ai quali può raggiungere tali maggioranze. Allearsi con Malta, Cipro e Grecia – con cui rappresenta circa il 15 per cento dei paesi Ue e circa il 16 per cento della popolazione – mentre va allo scontro con la Francia, non pare il modo più efficace.

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