La dichiarazione congiunta dei ministri dell’Interno di Italia, Malta e Cipro e del ministro della Migrazione e dell’Asilo della Grecia nei riguardi della Commissione europea contiene alcune affermazioni che sollevano perplessità in punto di diritto.

Innanzitutto, una premessa. Italia, Grecia, Malta e Cipro, «paesi di primo ingresso in Europa, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale ed orientale», dichiarano di agire «nel pieno rispetto di tutti gli obblighi internazionali». Circa il rispetto di tali obblighi da parte dell’Italia possono nutrirsi alcuni dubbi, come abbiamo rilevato in diversi articoli nei giorni scorsi.

Quando il governo nega l’approdo a navi di soccorso, non osserva gli obblighi sanciti dalle convenzioni internazionali – convenzione Unclos (art. 98.2) ed emendamenti del 2004 alle convenzioni Solas e Sar – che prevedono di fornire un posto sicuro e di sollevare quanto più sollecitamente da responsabilità il comandante della nave. Quanto a Malta, è ormai noto che continua ad ignorare le richieste di coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso condotte nelle proprie acque, in forza del fatto che non ha ratificato i suddetti emendamenti, che impongono obblighi di cooperazione agli stati costieri.

La condotta delle Ong

Nella nota congiunta si afferma che gli sbarchi di «immigrati illegali» rispondono a «una scelta fatta da navi private, che agiscono in totale autonomia rispetto alle autorità statali competenti».

Quella definita come «scelta fatta dalle navi private», di fatto, è una condotta rispondente alle predette convenzioni, che impongono il dovere di salvare le persone in difficoltà e di portarle sulla terraferma al più presto. Dunque, non una scelta, ma un obbligo. Quanto al fatto che le navi «agiscono in totale autonomia rispetto alle autorità statali competenti», bisognerebbe innanzitutto dimostrare che i Centri di coordinamento delle zone Sar (Search and Rescue) non siano state avvisati della situazione di “distress” su cui intervengono le navi delle organizzazioni non governative (Ong), e che non siano stati nemmeno avvertiti i paesi di bandiera. Peraltro, secondo la convenzione Solas, la comunicazione alle autorità competenti è dovuta solo «se possibile», e non tassativamente. Quindi, omettere l’informativa non rende automaticamente fuori legge l’attività delle navi di soccorso.

«Il modus operandi di queste navi private non è in linea con lo spirito della cornice giuridica internazionale sulle operazioni di search and rescue, che dovrebbe essere rispettata», si legge nella nota. Premesso che, in presenza di norme chiare, «spirito della cornice giuridica» è espressione molto fumosa, il passaggio riportato sembra sollevare il dubbio che le Ong favoriscano l’immigrazione irregolare. Tale dubbio non trova conferma nelle decisioni dei tribunali che, salvo un caso per cui è in corso un processo, hanno archiviato tutte le inchieste sulle Ong. Anziché alimentare sospetti teorici sull’illegalità dell’operato delle Ong, sarebbe meglio svolgere accertamenti concreti.

Il Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. 286/1998) prevede che navi italiane in servizio di polizia o navi della Marina militare (art. 12, c. 9-bis e c. 9-quater) possano fermare l’imbarcazione sospetta, ispezionarla e, se rinvengono elementi che confermino l’ipotesi di reato, sequestrarla e condurla in porto. Quindi, continuare a suggerire, più o meno esplicitamente, che le navi delle Ong concorrano al favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, ma non effettuare verifiche, serve solo a una certa narrazione.

Anche il concetto di casualità del soccorso, per cui l’attività delle Ong non costituirebbe un “vero” salvataggio, è privo di fondamento La casualità non è requisito previsto in alcuna convenzione internazionale. E soprattutto non esiste una norma secondo cui, se il soccorso non avviene per caso, diventa automaticamente ipotesi di reato – collusione con trafficanti o scafisti o comunque attività dolosamente preordinata alla introduzione di immigrati irregolari – con una presunzione di colpevolezza (non dimostrata) a carico delle Ong.

Gli “immigrati illegali”

I quattro paesi firmatari della norma affermano di non poter «sottoscrivere l'idea che i paesi di primo ingresso siano gli unici punti di sbarco europei possibili per gli immigrati illegali». Di fatto, “l’idea” è già stata “sottoscritta”: le convenzioni internazionali, cui i quattro paesi aderiscono, prevedono l’obbligo di soccorso di ogni persona in pericolo in mare, e il soccorso si conclude nel posto più agevole da raggiungere, che non può essere che uno stato costiero.

Le convenzioni sono altresì molto chiare sul fatto che il salvataggio prescinde dallo status giuridico – “immigrati illegali” - delle persone da salvare. Questa regola non è derogata dal Testo unico sull’immigrazione (art. 10-ter), ai sensi del quale prima di tutto si effettua il salvataggio, e solo dopo si svolgono gli accertamenti necessari negli appositi centri. Dunque, la possibilità che “immigrati illegali” arrivino nel Paese non è esclusa dalla legge vigente

Secondo il regolamento di Dublino, la competenza a esaminare la domanda di asilo è dello Stato di primo arrivo, e anche di questo si lamentano i paesi nella nota congiunta. Va ricordato che nel 2018 la modifica del regolamento fallì a causa anche dell’Italia, con Matteo Salvini al Viminale.

Codice di condotta per le Ong

Dalla nota sembra emergere la richiesta di un codice di condotta per le navi delle Ong, oltre alla esigenza che ogni stato di «esercitare la giurisdizione e il controllo sulle navi battenti la propria bandiera».

Nel 2019, l’ex titolare del dicastero dell’Interno Luciana Lamorgese aveva presentato all’Unione europea una proposta relativa a un codice di comportamento per le operazioni Sar nel Mediterraneo. La proposta ricalcava il Codice di condotta per le operazioni di salvataggio dei migranti in mare, voluto nel 2017 dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti. Si tratta di un atto privo di valore normativo, ma vincolante per le parti, che Minniti impose alle Ong di sottoscrivere come condizione per proseguire la propria attività.

Il Codice è improntato a un atteggiamento di sospetto verso le navi di soccorso, cui sono imposti obblighi e divieti che ne restringono i margini di azione e che, per alcuni versi, non sono pienamente conformi a norme internazionali. La proposta di Lamorgese estendeva quel codice all’Unione europea, anche per obbligare gli stati di bandiera delle navi delle organizzazioni umanitarie, da un lato, a una certificazione di requisiti tecnici delle navi stesse; dall’altro lato, a una «responsabilizzazione» circa la successiva redistribuzione dei migranti.

L’intento della proposta di un codice per le navi delle Ong pare quello di limitarne l’attività. Peccato non emerga mai il fatto che tali navi non solo integrano l’opera di soccorso degli stati costieri, che questi ultimi talora non sono in grado di svolgere come servirebbe, ma effettuano anche salvataggi in acque internazionali, dove altrimenti le persone potrebbero solo annegare.

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