«La Valle ha una storia di lotta e solidarietà, non guarda dall’altra parte», racconta Gabriele, uno degli operatori del rifugio Fraternità Massi a Oulx mentre inforna una teglia di pasta pasticciata. Sono quasi le 12 e le persone del rifugio si stanno per mettere a tavola. Accanto alla cucina c’è una grande sala da pranzo: «Si mangia presto di solito perché poi bisogna accompagnare i ragazzi al pullman per Claviere». Oggi però non si pranza in compagnia: «Sono partiti tutti stamattina molto presto».

Oulx è uno degli ultimi comuni italiani prima della frontiera francese, una località montana dell’alta Val di Susa alle pendici delle Alpi. Qui, dal 2018, si trova il Rifugio Fraternità Massi, ospitato nei locali della diocesi cittadina.

La struttura offre alle persone migranti un luogo dove pernottare, un pasto caldo e supporto essenziale: «L'obiettivo è offrire accoglienza umanitaria di emergenza, senza favorire l'immigrazione irregolare. I migranti possono restare una o due notti, ricevendo il supporto necessario per affrontare il loro viaggio in sicurezza» dice Marco, un altro operatore.

Un punto di riferimento

Il rifugio si trova vicino al centro del paese, accanto alla chiesa. Occorre attraversare un cancello per arrivare nel giardino che circonda l’edificio. Al primo piano si trova la cucina, mentre al secondo ci sono le stanze: «Possiamo ospitare fino a 80 persone. C’è una stanza per persone fragili, famiglie e donne sole o con bambini. L’anno scorso abbiamo avuto a volte anche 200 persone in una sera, ci siamo dovuti stringere».

Il rifugio vive grazie ai volontari: «In Val Susa c’è abitudine in questo, riceviamo molto supporto dalla comunità. Spesso i gruppi scout vengono a fare servizio qui durante il weekend e ci aiutano a pulire le stanze, cambiare le lenzuola». Il clima favorevole si è creato anche perché si cerca il dialogo: «Qui non funziona l’approccio a “muso duro” — racconta Elena, ricercatrice del progetto On Borders Oulx che monitora i flussi e le attività sul confine — per questo siamo riusciti a creare un ecosistema che sopravvive. Se ci sono respingimenti alla frontiera, la croce rossa di Bussoleno porta qui le persone: siamo un punto di riferimento».

Una volta scesi dall'autobus, le opzioni sono due: attraversare il confine a piedi o avventurarsi tra i sentieri delle montagne. Quest’ultima strada è pericolosa. Nonostante ci siano percorsi escursionistici già battuti, capita che i migranti si disperdano nel bosco per scappare dalla polizia: «La violenza delle autorità in Serbia e Croazia spesso crea traumi, e sono molto spaventati dall’idea di essere picchiati», racconta Christophe del Refuge Solidaire di Briançon, la struttura che si trova al di là del confine in Francia e svolge un lavoro speculare a quello del rifugio Massi.

Le maraude

Dal 2015, il gruppo “Tous Migrants” organizza ogni sera d’inverno, eccetto il lunedì, delle “maraude”. Esplorazioni lungo i sentieri della montagna per monitorare se qualcuno si è disperso o se ci sono infortuni, e che servono a «testimoniare la negazione quotidiana dei diritti alla frontiera».

Ogni sera una macchina con a bordo un volontario di Tous Migrants e uno di Médecins du Monde perlustra l’area tra Briançon, Monginevro e la Valle di Nevache. «L’anno scorso – racconta Cristophe – ce n’è stato meno bisogno». Infatti, da gennaio a novembre i respingimenti alla frontiera sono stati pressoché nulli. Questo perché il 21 settembre 2023 la Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue) ha emesso una sentenza che dichiarava illegittima la pratica del respingimento sistematico interno alle frontiere, provvedimento ripreso anche dal Consiglio di stato il 2 febbraio del 2024.

Da quel momento fino a pochi mesi fa, la maggior parte delle persone che volevano richiedere asilo in Francia si presentava alla frontiera a Monginevro e veniva ammessa sul territorio. «Ciò ha significato non doversi inerpicare tra i sentieri della montagna, e ridurre drasticamente i rischi del cammino. A ottobre, però, il ministro dell’Interno Retailleau, durante il suo primo Consiglio d’Europa, ha chiesto una linea dura sull’immigrazione, e i controlli e respingimenti sono ripresi, e così anche le difficoltà», continua l’operatore.

Se si riesce ad attraversare il confine la prima città in cui ci si ferma è Briançon. Lì c’è la struttura in cui lavora Christophe e dove le persone migranti arrivano “per passaparola”. «La prima cosa che facciamo quando arrivano qui è chiedergli se sono passati per la montagna. Cerchiamo di fare poche domande sul viaggio, limitandosi a quelle essenziali per dare aiuto concreto. Se sono passati da lì potrebbero avere freddo, magari devono cambiare vestiti perché si sono bagnati durante il tragitto».

Christophe si alza per mostrare un ripostiglio che affaccia sul suo studio, apre la porte e mostra una serie di bacinelle impilate: «Le usiamo per bagnare piedi e mani delle persone che hanno sofferto il freddo. Se ci sono lesioni gravi però li portiamo subito in ospedale. Per fortuna non è successo spesso, ma può accadere».

Anche qui le persone si fermano in media una notte. Possono riposarsi, dormire in una delle stanze che stanno al secondo piano, giocare a ping pong nell’area ristoro. Ma il refuge come la struttura di Oulx non è un centro di accoglienza, né un luogo di permanenza. Sono posti di passaggio, e l’indomani arriveranno sempre altre persone.

Da una parte all’altra della montagna, senza coordinamento, si è creata una catena naturale di solidarietà: «Non tutti sono contenti del nostro lavoro, ma la gente di montagna capisce. Qui la sera fa freddo ed è impensabile lasciare qualcuno all’addiaccio», conclude Christophe.

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