«Siamo pronti a sfiduciare Ursula von der Leyen, abbiamo le dita pronte sopra il pulsante», dice la liberale olandese Sophie in’t Veld, che nell’Europarlamento è tra i più accesi difensori della democrazia. I margini per spodestare la presidente della Commissione sono davvero stretti. Ma qualche scossa a palazzo Berlaymont deve essere arrivata, visto che questo martedì Ursula von der Leyen non si presenta all’Europarlamento, a render conto della sua scelta di dare il via libera al piano di Recovery polacco. Lascia il compito ai commissari Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis. Non mette la faccia per difendere una scelta che è indifendibile, secondo una parte ingombrante della sua stessa Commissione.

La resa del diritto

Il caso politico riguarda la scelta, ufficializzata da Bruxelles a inizio giugno, di dare semaforo verde al piano polacco di ristoro e resilienza (Pnrr), e aprire così la strada all’esborso di circa 24 miliardi di sussidi e oltre 11 in prestiti. «Questa è una capitolazione, è una resa nella battaglia per il primato del diritto sul potere», commentano giuristi come Franz C. Mayer. Il fatto è che uno stato, per essere membro dell’Ue come la Polonia è dal 2004, deve rispettare i valori democratici; lo dicono i trattati (l’articolo 2 del trattato di Maastricht), e la Commissione è la guardiana dei trattati.

Di fronte al deteriorarsi dello stato di diritto nel paese, in particolare per quel che riguarda l’indipendenza dei giudici, la leva finanziaria del Recovery plan rimane uno dei più efficaci strumenti a disposizione di Bruxelles. Formalmente, la Commissione mette per iscritto che per avere le tranche di fondi Varsavia deve raggiungere alcuni traguardi (milestones), e tra questi cita il tema dell’indipendenza della magistratura. In sostanza però, von der Leyen sta accettando per ragioni di compromesso politico una riforma solo di facciata.

L’accordo e il trucco

Già questo autunno, prima della guerra, quando ancora von der Leyen faceva arringhe sulla democrazia e il premier polacco cavalcava la propaganda anti Bruxelles, è apparso chiaro quale sarebbe stato il punto di caduta dell’accordo: l’abolizione della camera disciplinare. Il presidente polacco Andrzej Duda, accreditato da Washington come uomo di fiducia e diventato il pontiere anche con Bruxelles, ha guidato il compromesso, il cui esito è la riforma approvata di recente dal parlamento polacco. «Non cura le cause, finge solo di trattare i sintomi», come ha detto il senatore di opposizione Bogdan Klich, ex ministro della Difesa. Eppure i negoziati tra Commissione e governo andavano avanti da mesi, l’intenzione di Bruxelles di approvare il piano era chiara, e l’approvazione della riforma è stata solo l’innesco formale. Il contesto geopolitico, il rafforzamento dei legami tra Polonia e Stati Uniti, e la strategia lanciata da Joe Biden per scomporre il fronte Varsavia-Budapest, hanno fatto da catalizzatori alla scelta di von der Leyen di digerire il compromesso.

Indignazione e reazione

Ma dentro lo stesso collegio dei commissari, c’è chi si è smarcato dalla scelta di von der Leyen: i commissari con deleghe allo stato di diritto, Vera Jourova, e alla giustizia, Didier Reynders, il vicepresidente Frans Timmermans, figure di peso come Margrethe Vestager e Ylva Johansson. «È un campanello di allarme», dice Sophie in’t Veld. «I traguardi definiti da Bruxelles sono già al di sotto dei criteri indicati dalla Corte di giustizia Ue, in più la presa di distanza dei commissari suggerisce che von der Leyen non sarà intransigente nel farli rispettare». Perciò in’t Veld e i colleghi liberali, Guy Verhofstadt e Luis Garicano, hanno avviato la raccolta di firme per una mozione di sfiducia: «Von der Leyen ora sa che non appena dà i soldi senza aver assicurato il rispetto dei criteri, incapperà in questo voto». Spiega in’t Veld che «la sfiducia non può essere individuale ma di tutto il collegio: le capitali premeranno per evitare che la Commissione cada». La pressione cresce: giovedì l’Europarlamento vota una risoluzione sul caso polacco.

© Riproduzione riservata