L’Unione europea sperimenta una forma sofisticata di sindrome di Stoccolma, quella cioè che fa vedere nel sequestratore la propria salvezza. I Popolari europei portano la responsabilità di aver aperto le porte dell’Ue all’estrema destra – a cominciare da Giorgia Meloni – e ora si presentano come «il bastione per difendere l’Unione dagli estremi di sinistra e di destra»; le parole sono di Ursula von der Leyen, e a modo suo bisogna intenderle, cioè sapendo che la presidente non considera Meloni tra gli estremi.

La melonizzazione d’Europa procede – oltre ai risultati di Fratelli d’Italia, le estreme destre stanno scuotendo al cuore l’Ue a partire da Francia e Germania – e intanto la famiglia popolare si rafforza come azionista di maggioranza dell’Europarlamento. Ora ha 186 seggi su 720, nella scorsa legislatura 176 su 705: era già il primo gruppo, ed esce rafforzato dal voto.

Il Ppe e von der Leyen

Tra i fattori trainanti, oltre alla performance dei cristianodemocratici primi in Germania, c’è il successo di Donald Tusk, la cui coalizione sorpassa – a differenza del 2019 – il Pis alleato di Meloni. I numeri potrebbero gonfiarsi ulteriormente con l’ingresso nel gruppo di Tisza, la nuova destra ungherese di Péter Magyar che sfiora il 30 per cento e sta negoziando col Ppe.

Nel complesso il successo ringalluzzisce Manfred Weber, plenipotenziario di gruppo e partito popolari, al quale nel 2019 von der Leyen aveva strappato la presidenza della Commissione e dal quale adesso dipende la sopravvivenza politica di lei. Nelle ultime ore si esprimono all’unisono: Weber detta la strategia e von der Leyen sfiora il ventriloquismo.

La linea data sùbito dopo il voto serve a blindare per il Ppe la presidenza di Commissione garantendosi che i leader non la boicottino in Consiglio. Questo lunedì sera i Popolari hanno radunato i loro capi di governo proprio per serrare le fila; inoltre hanno individuato nei premier polacco e greco i loro negoziatori in Consiglio per le nomine. Se si pensa che proprio Donald Tusk e Kyriakos Mītsotakīs avevano sponsorizzato von der Leyen come spitzenkandidat del Ppe, apparirà chiaro che i Popolari arrivano ai summit di giugno con l’intenzione di spingere per il suo bis; il che fa finire sullo sfondo voci su Mario Draghi come alternativa, a maggior ragione ora che la leadership di Macron è fragile.

Prima del voto, von der Leyen ha aperto a Fratelli d’Italia, suscitando la reazione del cancelliere tedesco, ed era inoltre strattonata da Macron, frettoloso di negoziare le sue priorità (spese per difesa e imprese) prima della débacle ai seggi. «Macron e Scholz sostengano von der Leyen», spinge Weber ora che Scholz ha avuto la batosta di vedersi sorpassato da AfD (16 a 14), e che la Francia è in crisi politica (vota per un nuovo parlamento).

Perché la spitzenkandidat del Ppe diventi presidente serve anzitutto il sostegno del suo paese di provenienza, e così i cristianodemocratici tedeschi (al 30 per cento) strattonano il cancelliere per blindare il loro nome, tra chi invoca elezioni anticipate e chi la fiducia sul governo semaforo. Nel frattempo – sapendo che socialisti e liberali hanno messo il veto a maggioranze con Meloni – Weber e von der Leyen annunciano di partire dalla tradizionale maggioranza con S&D e Renew. Ma «è una piattaforma iniziale» (dice Weber) per poi avere «una coalizione ampia» (von der Leyen).

Schlein e i progressisti

È proprio Weber ad aver fatto entrare Meloni come cavallo di Troia delle estreme destre nel cuore decisionale dell’Unione, tre anni fa, quando ha avviato l’alleanza tattica con la leader, assicurandosi poi che anche von der Leyen si sintonizzasse.

I numeri dicono ad ogni modo che la maggioranza tradizionale dell’Ue regge anche da sola: i socialisti hanno 135 seggi (rispetto al 2019 ne perdono 4); i liberali risentono del disastro macroniano e passano da 102 a 79, ma le tre famiglie messe insieme hanno 400 seggi e quindi più che la maggioranza assoluta.

Nel futuro gruppo socialista c’è da aspettarsi un protagonismo del Pd di Elly Schlein – non per forza con un capogruppo italiano ma quantomeno in termini di strategia – visto che per un soffio la delegazione italiana arriva a superare quella spagnola. I Verdi – crollati da 71 a 53 seggi – puntano a disarticolare la saldatura tra Popolari e meloniani, proponendosi loro come supporto a una maggioranza europeista.

«L’unica coalizione stabile e democratica possibile sarebbe coi Verdi», dice lo spitzenkandidat green Bas Eickhout, ma «non abbiamo iniziato i negoziati con von der Leyen», conferma a Domani. Per un Ppe che si è sincronizzato con le estreme destre sullo smantellamento dell’agenda verde, una retromarcia sarebbe a dir poco acrobatica; ma su questo nodo si gioca la sopravvivenza del clima in agenda. Visti i rapporti ottimi tra i Verdi e Schlein, un protagonismo di lei nel gruppo socialista rappresenta una buona sponda negoziale per loro.

Meloni e le destre estreme

«Il responso delle urne impone che l'Europa guardi molto più verso il centrodestra», ha detto questo lunedì Meloni, aggiungendo che «è presto per parlare di un bis di von der Leyen» perché «vanno bene anche partiti che non l’hanno sostenuta»: come al solito la premier rivendica un ruolo di interpolazione tra le destre per avere influenza. Il suo gruppo passa da 69 a 73 eurodeputati, con una inversione di forze tra FdI e l’irrequieto alleato polacco del Pis, in calo.

Il vero exploit è quello del Rassemblement National, che diventa una delle prime delegazioni dell’Europarlamento. Questo mercoledì Le Pen incontra uno stremato Salvini a Bruxelles: non c’è solo il fatto che Id sia passato da 49 a 58 seggi nonostante l’uscita di Afd, ma è soprattutto la leadership a cambiare. La Lega, rampante nel 2019, esce a pezzi dal voto, mentre il Rassemblement spera in Bardella al governo e Le Pen all’Eliseo; e poi ci sono gli austriaci di FPÖ – pure loro dentro Id – che sono ora primo partito e puntano a prendersi il cancelliere in autunno.

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