Un bacio con Friedrich Merz, il leader della Cdu. Il via libera unanime della dirigenza del partito. E poi il discorso dal palco di Berlino, per dire ciò che tutti sapevano, perché la sua campagna è in corso da sempre: Ursula von der Leyen punta al secondo mandato alla presidenza della Commissione europea.

Non sarà semplicemente un bis. Se è vero, come ha detto questo lunedì la presidente, che «il mondo di oggi è completamente diverso da quello del 2019», pure la von der Leyen del 2024 non è più la stessa del 2019: sono diverse forma e sostanza.

Una competizione fake

Dopo che i cristianodemocratici tedeschi hanno scelto l’attuale presidente come loro volto di punta per giugno, il Ppe – la famiglia europea di riferimento – farà altrettanto a marzo al congresso di Bucarest: von der Leyen sarà la spitzenkandidat dei popolari. «Un’Europa forte ha bisogno di una leadership forte del Ppe e di von der Leyen»: così il leader del Ppe Manfred Weber ha benedetto l’operazione.

Il sistema degli spitzenkandidaten sarebbe l’iter ideale per europeisti ed europarlamentari: ogni famiglia politica propone un candidato alla presidenza, e quella che incassa più seggi prende la guida della Commissione. Il sistema servirebbe a rivendicare una centralità degli eletti e a sottrarre la leadership di Bruxelles al puro negoziato opaco fra governi.

C’è qualcosa di paradossale nel fatto che von der Leyen, catapultata nel 2019 proprio per quei negoziati – e per le spinte di Angela Merkel – dal ministero della Difesa tedesco alla poltrona di Bruxelles, ora segua l’iter formale della competizione aperta tra “spitzenkandidaten”, visto che stavolta la gara parte squilibrata a suo favore.

Mutazione in corso

Cinque anni fa, von der Leyen aveva dovuto racimolare voti anche tra gli ultraconservatori polacchi del Pis e gli orbaniani di Fidesz. Il contrasto al cambiamento climatico avrebbe dovuto guidare la sua azione e segnalare anche un’agenda contaminata di priorità progressiste, vista la convivenza dei popolari con socialisti e liberali.

Ma dal 2021 Weber, plenipotenziario del Ppe, ha cominciato a strattonare la presidente. Ha saldato un’alleanza tattica coi Conservatori di Giorgia Meloni, apparsa tangibile a gennaio 2022 con l’elezione di Roberta Metsola a presidente dell’Europarlamento, e per la prima volta anche di un conservatore – Roberts Zīle – tra i vice. Weber ha poi guidato un assalto al Green Deal coordinandosi con l’estrema destra, e ha ventilato l’ipotesi di lanciare Metsola per la presidenza della Commissione.

Le mosse servivano a far pressione su von der Leyen, e hanno funzionato: negli ultimi tempi lei ha sempre più dirottato la sua presidenza a favore di Meloni, ha ridimensionato l’agenda climatica e ha puntato alla base elettorale dei popolari annunciando deroghe e concessioni alle grandi imprese.

Una base per il potere

Da tempo von der Leyen lavora al bis garantendosi supporto da gruppi politici e capi di governo. Nel 2019 ha fatto leva sulla tradizionale coalizione fra popolari, socialisti e liberali; Weber l’ha fatta traballare con spinte a destra, e ora i due si esercitano in un mix di protagonismo ed equilibrismo: l’obiettivo è fare dei popolari l’ago della bilancia.

Weber è il normalizzatore dell’estrema destra in Europa, e von der Leyen la miglior sponda di Meloni, e pure la presidente ha detto da Berlino che «difendiamo la democrazia: Putin e i suoi amici, Afd, Le Pen, Wilders: vogliono distruggere l’Europa». Il tema è da campagna, ma il punto è pure che il Ppe vuole gestire lui il processo di assimilazione delle destre: alleanza tattica con Meloni sì, gruppone destre estreme no.

Alla presidente serve il sostegno dei governi: può far leva sulla sua Germania, verso la quale ha da sempre attenzioni privilegiate, e sull’Italia, dopo ampi omaggi a Meloni. La Francia è cooptata con uscite pro industria. «Dovremmo accettare l’offerta di Macron per integrare l’armamento nucleare francese nelle strutture europee», va dicendo Weber, mentre von der Leyen rilancia: più spese militari e un commissario dedicato.

Scandali e ombre

Von der Leyen ha spinto all’estremo le prerogative presidenziali, ma non per questo ha rafforzato la governance democratica dell’Ue; è vero il contrario.

«La Commissione è colpevole di malgoverno», come ha detto a Domani la ombudsman Ue Emily O’Reilly. La presidente ha gestito in modo accentrato gli acquisti di vaccini, e dopo le rivelazioni sul contratto con Pfizer negoziato privatamente via sms, di quei messaggi non è stata data traccia. Singolare che qualcosa di simile fosse avvenuto nel passato politico in Germania: più volte ministra con Merkel, alla Difesa era finita nella bufera per uno scandalo consulenze, e all’epoca dell’inchiesta il cellulare fu trovato ripulito.

La sua gestione degli acquisti ha messo in allerta ombudsman, Corte dei conti e procura europee; con tali premesse ora vuol pure diffondere il sistema in altri settori come la difesa. L’accesso privilegiato delle corporation al processo decisionale si concretizza durante la sua presidenza nei tanti incontri con grandi portatori di interesse e in proposte come quella di settembre: un «rappresentante speciale dell’Ue per le Pmi che riferirà direttamente a me» e atti legislativi “business proof”.

«Competitività» è la sua parola d’ordine elettorale; sul tema ha ingaggiato Mario Draghi. Von der Leyen si concentra sempre più su un’Ue per corporation, mentre l’Europa sociale finisce eclissata, quella climatica sacrificata. E pure la democrazia europea ne esce malconcia.

Gli eurodeputati conoscono bene il calcolato ritardo col quale von der Leyen ha aspettato le elezioni ungheresi 2022 prima di congelare fondi all’Ungheria, e la calcolata rapidità con la quale ha sbloccato dieci miliardi a Orbán alla vigilia di un Consiglio.

Pure i governi hanno avuto modo di lamentarsi. A marzo 2023 alla Casa Bianca von der Leyen – detta «la presidente americana» – ha preso posizione per il divorzio dalla Cina; il Consiglio si è allarmato e lei ha dovuto rimodulare: derisking invece che decoupling. A ottobre si è schierata con Netanyahu senza prima coordinarsi bene. E che dire dell’iniziativa di portare in Tunisia Meloni e Rutte? O delle gite in Italia? Tutte scelte calibrate sulla propria sorte.

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