Di solito i partiti presentano ogni voto come un momento storico, decisivo. Questa volta non succede: i Cinque stelle dicono che tagliare un terzo dei parlamentari è una «riforma chirurgica». Anche il Partito democratico di Nicola Zingaretti, schierato controvoglia per il Sì dopo tre voti parlamentari contrari, minimizza.

In effetti il parlamento continuerà a funzionare anche se lunedì avrà vinto il Sì e dalla prossima legislatura ci saranno 230 deputati e 115 senatori in meno, ma sarà diverso, amputato. Le democrazie non muoiono quasi mai di infarto, ma di lenta consunzione.

Chi difende il taglio si avvita in argomentazioni contraddittorie: il taglio delle poltrone renderà la “casta” degli eletti più debole, dicono, ma la renderà anche più forte perché costringerà i partiti a scegliere meglio i loro onorevoli (la storia recente insegna che rimarranno i più fedeli al leader, non i più competenti).

I tentativi di nobilitare questa riforma inserendola nella tradizione dei progetti di revisione del parlamento sono discutibili: per la prima volta lo scopo unico della riforma è avere un parlamento meno affollato, senza rivedere competenze, modalità di selezione, responsabilità. Il numero attuale di deputati e senatori non è stato fissato dai padri costituenti nel 1946, ma da una riforma del 1963, ripetono i sostenitori del taglio.

Vero, ma omettono che la riforma del 1963 si era resa necessaria perché la Costituzione prevedeva un aumento automatico del numero dei parlamentari al crescere della popolazione, così da mantenere il rapporto tra eletti ed elettori.

Svuotare il parlamento

Il Movimento 5 stelle ha un disegno: ridurre il ruolo del parlamento, che si regge sui partiti, e sostituirlo con forme di democrazia, almeno di nome, diretta.

Invece di creare le condizioni perché i parlamentari siano più indipendenti ed efficienti – divieto di altri incarichi durante il mandato, voto a distanza, selezione diretta da parte degli elettori – i Cinque stelle sembrano voler ridurre deputati e senatori a figure marginali e trasformare il parlamento in un grande Cnel, l’ente sempre in cima alla lista di quelli inutili.

Con una certa coerenza, infatti, il Movimento candida perfetti sconosciuti, ignoti tanto agli elettori quanto ai leader di partito che li vedono solo sulla piattaforma Rousseau.

Dopo aver cancellato del tutto gli ingiustificabili vitalizi (mai efficaci come disincentivo ad asservire la funzione legislativa alla prospettiva di futuri ritorni economici), il Movimento si è applicato davvero ad «aprire il parlamento come una scatoletta di tonno»: ora il taglio, poi la riforma per costringere i parlamentari a recepire le leggi di iniziativa popolare, altrimenti si va al referendum, infine la promessa di tagliare anche gli stipendi.

Nessuna di queste cose da sola è decisiva, ma tutte insieme indicano una direzione precisa.

Anche la Lega, l’altro partito che ha reso possibile il taglio, ha una lunga tradizione anti parlamentare: si era addirittura inventato un parlamento alternativo, quello della Padania, negli anni delle velleità secessioniste.

Ancora nel 2017 i presidenti leghisti di Lombardia e Veneto, appoggiati dall’Emilia-Romagna, hanno promosso un referendum consultivo per spostare a livello locale parte delle decisioni oggi prese a Roma.

I leghisti hanno sempre considerato Camera e Senato ostacoli a un potere che doveva rimanere locale: più debole la capitale, più forti Milano e Venezia.

Non è dunque una coincidenza che questa riforma sia il prodotto della breve stagione della grande coalizione populista Lega-Cinque stelle: secondo i calcoli dei politologi Yascha Mounk e Jordan Kyle, il 50 per cento dei leader populisti al potere nel mondo negli ultimi venticinque anni ha modificato la Costituzione per deformare le istituzioni a proprio beneficio.

Il Pd prima ha votato contro la riforma, poi l’ha avallata in nome del principio del male minore e dell’alleanza con i Cinque stelle: meglio un parlamento amputato che la destra di Matteo Salvini al governo (versione meno nobile: meglio un parlamento amputato nella prossima legislatura che amputare subito molti parlamentari del Pd in caso di elezioni anticipate).

Zingaretti potrebbe pagare un prezzo alto per queste scelte: con la vittoria del Sì il parlamento sarà più debole e i Cinque stelle più forti, mentre in Toscana Matteo Salvini potrebbe raccogliere i frutti di un anno di campagna elettorale permanente dall’opposizione.

La perdita della Toscana, governata dal Pd da settant’anni, segnerebbe la probabile fine della segreteria di Zingaretti.

Il governo potrebbe quindi uscire più forte o più debole da questa tornata elettorale a prescindere dall’esito del referendum.

Si può dunque votare guardando soltanto all’impatto sul parlamento.

Chi pensa che sia ancora lì il cuore della democrazia ha una lunga lista di argomenti per scegliere il No. 

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