Tre a tre. Per governo e Pd significa stabilità e un baricentro spostato a sinistra. Non era scontato. L’ennesimo azzardo di Matteo Salvini e quella tennistica previsione sul sei a zero ha confermato come dopo l’estate rovinosa del Papeete l’uomo non ne abbia azzeccata una. Peraltro, se la maggioranza si fosse misurata compatta anche sui territori, l’esito sarebbe stato più netto, con la conferma delle Marche e qualche voto in più in quella Liguria dove Toti a lungo ha goduto del confronto lacerante nell’altro schieramento. Sull’immediato il voto avrà l’impatto sperato almeno nel mio campo, magari non da tutti perché non tutti, al pari di Nicola Zingaretti, ci hanno messo la faccia.

Al segretario del Pd questo merito va riconosciuto. Ha cercato in ogni modo l’alleanza più larga e dinanzi al rifiuto di questi e quelli ha accettato la sfida. Si è fatto carico dell’unità mancata e alla fine un pezzo del paese quella scelta ha compreso e condiviso.

La crisi dell’alleato a Cinque stelle

Il Movimento Cinque stelle esulta per il taglio dei parlamentari. Successo, ma non trionfo si è scritto, e tale nei fatti è stato, ma quel trenta per cento di No dice qualcosa in più. Che quella di domenica e lunedì potrebbe esser stata l’ultima vittoria dell’antipolitica e l’ultima sconfitta del fronte che vi si oppone.

Voglio dire che il clima del paese è cambiato e la simbologia ottusa delle forbici di cartone all’ingresso della Camera è destinata per molte ragioni a non incantare oltre.

Adesso la stagione annunciata di riforme dovrà prendere corpo e la quota tutt’altro che esigua di chi si è detto contrario a usare le cesoie senza un disegno potrà aiutare a camminare sul sentiero giusto.

Detto ciò, colpisce la rimozione del dato politico. Noi del Pd stiamo governando l’Italia nella stagione più drammatica degli ultimi decenni e lo facciamo assieme a una forza che due anni fa ha raccolto il 32 per cento di voti e seggi.

Oggi il Movimento Cinque stelle vive rinchiuso, incistato, in quel parlamento che a parole, e non solo, pensava di ridurre a dependance di una confusa democrazia diretta. Dai territori si sono ritratti.

Del destino delle regioni, con l’unica eccezione ligure, si sono disinteressati presentando liste e candidature ovunque di testimonianza. Se i nostri primi alleati scelgono questo limbo, lo stesso non dobbiamo fare noi, quindi sarà bene che il confronto sulla natura dell’alleanza concepita un anno fa imbocchi il sentiero della chiarezza sulla strategia.

Quanto al governo, che esca rafforzato è una buona notizia in ogni senso. Tanti e tali sono gli impegni attesi e tale è il peso delle responsabilità legato ai fondi in arrivo dall’Europa che uno sbandare ora avrebbe spinto a un balzo nel vuoto o nel ritorno da più parti auspicato alle virtù dei tecnici.

Nessun Macron in Italia

La scommessa dell’ultima scissione, quella renziana, ha trovato puntuale verifica nelle urne. Non ne faccio una questione di percentuali, punto più punto meno. L’incrocio tra il fallito assalto alla Puglia (lì la missione non era vincere, ma far perdere) e lo sbocco magro nella patria toscana testimonia un errore di analisi.

Quell’operazione non ha fotografato la società italiana per come stava cambiando e il roboante annuncio a voler tradurre da noi il copione di Emmanuel Macron in Francia (abbattere lassù i socialisti e quaggiù il Pd) è uscito di strada alla prima curva. Perché poi dietro e dentro al voto di domenica il paese reale lo si è visto, sentito.

L’Italia del post Covid, sperando nel prefisso, non ha solo frequentato i seggi con le cautele imposte. Lo ha fatto coi sentimenti e la testa di chi sa che abbiamo davanti un tempo faticoso, impegnativo, quanto e più di quello alle spalle. Lavoro perduto e reddito ridotto, l’allarme per la scuola di figli e nipoti, l’ansia per una sanità pubblica che ha retto l’urto, ma ora ha bisogno come l’aria delle risorse da investire nel comparto più prezioso, tutto questo ha animato la scelta nelle urne. E a questi temi è stato giusto dedicare, per parte nostra, ogni energia.

Dei fatti della destra si occuperà la destra, però se una cosa si può notare è la distanza abissale tra l’agenda di famiglie, imprese, movimenti, è il lessico stanco di chi è rimasto inchiodato a un’altra stagione dove bastava strillare “porti chiusi” per mietere consensi.

La realtà? Che le prove più dure, come sempre è avvenuto, incidono sulla materialità delle condizioni, ma quando a cambiare sono le condizioni di vita per prima cosa cambia il modo di pensare, mutano le priorità che ciascuno sente di avere e con quelle i sentimenti e la fiducia verso chi può rispondere meglio a nuovi irrinunciabili bisogni.

Anche questo è il messaggio che arriva dal voto e raccoglierlo sarà l’impegno dei prossimi mesi, nel governo del paese, di tante regioni e città.

Tutto è lecito per vincere?

Infine noi, intendo il centrosinistra e il partito maggiore che ne guida e condiziona le sorti. La domanda non paia peregrina: cosa implica un risultato che rasserena gli animi e smorza ardori polemici già innescati?

Direi che tutto sta a mettersi d’accordo se il successo verrà vissuto come punto d’arrivo o se avremo ambizione e volontà di leggerlo all’inverso, come il risultato da cui muovere per la rifondazione del campo e del partito più grande. Perché questo mi sento di chiedere per primi a noi: esiste o no un tema che riguarda forme, modi, contenuti della ricerca e gestione del consenso? Ci sono oppure no luoghi e contesti – non sempre e non ovunque – dove affiora un sistema di potere e notabilato che a lungo da sinistra abbiamo contestato e combattuto?

Vi sono state talvolta o no anche alleanze impresentabili e candidature figlie di un trasformismo neppure dissimulato?

Penso che il valore della prova superata metta il Pd e il suo segretario nella condizione di aggredire anche questa pagina. Non per imbastire processi, ma come premessa di un consenso più largo, non agganciato a pratiche di un altro tempo e di un mondo che non potrà mai essere il nostro.

Questo è il momento di farlo se vogliamo trasmettere fiducia e passione a quelle forze nuove che ci sono, che in questa campagna elettorale si sono spese, e che a noi chiedono una coerenza tra i valori enunciati e concezione e pratica della politica. Io dico, apriamolo questo confronto, ci aiuterà a capire meglio il dopo, cosa siamo divenuti in alcune realtà e per cosa scegliamo di batterci.

Forse ci aiuterà anche a chiarire il significato ultimo del termine “vincere” e dove si debba collocare il confine tra quanto nel nome di quel traguardo è legittimo fare e ciò che, se fatto, semplicemente rovescia il conteggio dei numeri nello smarrire un’identità.

“Parigi val bene una messa” sentenziò il sovrano per giustificare la conversione che valeva il trono. Non c’è una Parigi che possa valere alla sinistra la conversione a una politica vecchia. Impedirlo indicando la prospettiva giusta è il compito da affrontare ora. Per vincere meglio domani.

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