«La partecipazione di questi dieci milioni di italiani al referendum non è un punto di arrivo, ma di partenza». Matteo Salvini poteva dire che «ogni crisi è un’opportunità», invece ha preferito affidarsi a un altro luogo comune per commentare il fallimento epocale dei referendum promossi dalla Lega sul tema della giustizia.

Perché la partecipazione democratica è sempre importante ma nel caso specifico non somiglia affatto a un punto di partenza. Tre dei cinque quesiti riguardavano temi che verranno comunque toccati e riformati dal testo messo a punto dalla ministra Marta Cartabia (che la Lega potrebbe trovarsi a votare e approvare tra domani e giovedì al Senato). Mentre gli altri due rimarranno parole stampate sulle schede rossa e arancione che poco più del 20 per cento degli aventi diritto ha depositato nelle urne domenica.

E questo non perché non siano degni di una battaglia parlamentare, ma perché Salvini ha dimostrato, ancora una volta, di conoscere poco o nulla il suo elettorato.

L’affluenza

Alla vigilia tutti sapevano che sarebbe stato impossibile raggiungere il quorum. La Lega, dopo averli promossi, ha fatto poco per mobilitare il suo elettorato. L’accorpamento con le elezioni amministrative ha favorito, come ovvio, l’affluenza nei comuni chiamati al voto, mentre negli altri ha vinto la voglia di trascorrere una giornata di riposo, magari al mare.

Tra gli oltre 970 enti locali in cui si è votato 26 erano città capoluogo. Diciassette, prima di questa tornata elettorale, erano governate dal centrodestra (Alessandria, Asti, Genova, La Spezia, Monza, Lodi, Como, Gorizia, Verona, Piacenza, Pistoia, Rieti, Frosinone, L’Aquila, Catanzaro, Messina e Oristano).

Lecito quindi aspettarsi che lì dove Salvini e i suoi erano in corsa per rieleggere i propri candidati sindaci, il referendum abbia avuto un esito diverso. E così forse è stato, ma non nel senso auspicato dal leader della Lega.

A parte Genova, dove l’affluenza si è fermata al 38 per cento, in gran parte delle altre città le percentuali si sono avvicinate al 50 per cento. In cinque casi hanno addirittura superato il quorum con “l’eccellenza” di Frosinone (62 per cento). Quasi tutte però hanno evidenziato lo stesso trend: nei primi due quesiti la vittoria dei Sì è stata di pochi punti percentuali e, in diversi casi, si è registrata addirittura una prevalenza di No.

I quesiti

Il primo e il secondo quesito riguardavano l’eliminazione delle misure cautelari in caso di rischio di «reiterazione dello stesso reato» quando non si tratti di reati gravi e l’abrogazione della legge Severino. Gli altri tre, invece, erano relativi alle carriere dei magistrati. Ovviamente non c’è una sovrapposizione totale tra elettori di centrodestra e votanti al referendum, ma certo colpisce che, mentre sulle toghe i Sì siano in netto vantaggio ovunque, sugli altri la battaglia sia così serrata. Si potrebbe sostenere che a fare la differenza siano stati Giorgia Meloni e i suoi che fin dall’inizio si sono espressi per tre Sì e due No. Ma se così fosse, sarebbe solo la conferma della leadership della leader di Fratelli d’Italia all’interno del centrodestra. Comunque non una buona notizia per Salvini.

Di certo c’è che l’elettorato di centrodestra mantiene la vecchia antipatia nei confronti dei magistrati, eredità della stagione berlusconiana (e non a caso Silvio Berlusconi, rompendo il silenzio elettorale, al seggio ha rispolverato il ritornello sulla «giustizia politicizzata»). Ma nel frattempo ha interiorizzato anche il giustizialismo sovranista fatto di chiavi «buttate» e persone che dovrebbero trascorrere «una notte in carcere» quando si macchiano di reati, anche se si tratta di ragazzini di 12 anni, meglio se si tratta di immigrati clandestini e spacciatori. Logico quindi che, quando si parla di cancellare misure cautelari e cause di incandidabilità, reagisca di conseguenza. Con buona pace di Berlusconi che della legge Severino è stato “vittima” eccellente.

Insomma, prima di proporre certi referendum, forse Salvini doveva ricordarsi dei suoi slogan elettorali, dei suoi blitz al citofono e, magari, di quando Umberto Bossi e i suoi agitavano il cappio in aula attaccando «Roma ladrona». Si sarebbe almeno risparmiato una brutta figura.

Visibilità

Il leader della Lega si è anche lamentato della scarsa visibilità che le televisioni hanno dato al confronto sui referendum. In realtà non è proprio così. Confrontando i dati forniti da Agcom si vede che, in termini di minuti, nei telegiornali si è parlato della consultazione di domenica esattamente come si era fatto nel 2016 per il referendum sulle trivelle. Che era terminato anch’esso senza il raggiungimento del quorum ma con una percentuale di votanti del 31 per cento.

Lo spazio dedicato ai quesiti sulla giustizia è addirittura aumentato nelle reti Mediaset, di proprietà del leader di Forza Italia che sosteneva le ragioni del Sì. Chi ha “silenziato” la battaglia di Salvini e Radicali sono invece stati i talk show. Cioè quelli che in questi anni, più di una volta, hanno fatto da megafono alle urla belluine dei leghisti su colpevoli o presunti tali da «sbattere in galera».

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