Anatomia di un concetto ambiguo. Il concetto di merito, unito alla sua declinazione nella forma di meritocrazia. Che ha fatto da motore per le rivoluzioni borghesi e ha favorito il tramonto dei modelli di organizzazione sociale fondati sull’ascrizione.

In loro vece si è affermato un modello di organizzazione sociale e di circolazione delle élite fondato sul principio dell’achievement, del positivo esito conseguito al termine di una prova densa di rischi e senza margine di errore. Rispetto a questa struttura valoriale di nuova foggia, il merito veniva a essere la sanzione sociale positiva. Ma davvero il merito è soltanto questo?

Un’onda lontana

Con tale interrogativo si misura l’ultimo numero di Indiscipline, rivista di scienze sociali disponibile e scaricabile gratuitamente sul sito di Morlacchi editore. Due ricche sezioni monografiche del fascicolo, una delle quali curata da Davide Borrelli (sociologo dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli), sono dedicate al tema e al tempo in cui esso diventa oggetto di dibattito. Un tempo che ha visto mettere in mora il patto di cittadinanza novecentesco, basato sulla sintesi welfarista dei diritti sociali.

Giusto l’impianto welfarista è stato il principale oggetto di attacco da parte delle ideologie neoliberiste. Che in politica hanno contribuito a introdurre il linguaggio dell’aziendalizzazione dei servizi. E nel frattempo aprivano la strada alla vasta privatizzazione.

Per entrambe le linee di azione il parametro di riferimento è dato dagli obiettivi e/o dal profitto, e il loro unificante principio-guida è l’achievement. Cioè il successo dell’operazione, che non automaticamente corrisponde alla sua utilità sociale. È stato lì che ha cominciato a incubare e svilupparsi la retorica del merito come virtù morale, da contrapporre al principio di solidarietà che invece è stato progressivamente declassificato alla stregua di anticamera dell’assistenzialismo e induttore di comportamenti rinunciatari se non parassitari.

Chi merita cosa

Questo è il contesto socioculturale che rende opportuna la pubblicazione di un fascicolo dedicato in così ampia misura al tema del merito e della meritocrazia. Tema che nelle pagine di Indiscipline viene affrontato a partire da approcci distinti e con chiavi di lettura anche molto diverse. In questo senso è suggestivo il fatto che la sezione monografica si apra con l’utilizzo di una chiave di lettura cinematografica, adottata da Sávio M. Cavalcante, sociologo brasiliano dell’Università di Campinas.

Cavalcante decide di trattare attraverso l’analisi di un’opera cinematografica l’impatto che la retorica meritocratica ha avuto sulla società brasiliana, tuttora attraversata da pesanti fratture multidimensionali (territoriali, etniche e di classe) nonostante il percorso di democratizzazione avviato nella seconda metà degli anni Ottanta. Il lungometraggio analizzato è firmato dalla regista Anna Muylaert e ha come titolo, nella versione italiana, È arrivata mia figlia! (2015).

Chi ha visto il film sa quanto magistralmente venga descritto il classismo immerso, prepolitico, che persiste anche nel segmento apparentemente progressista della borghesia brasiliana delle professioni, e quanto il discorso sulla meritocrazia rischi di convertirsi in un filtro occulto rispetto alla formale condizione di uguaglianza delle opportunità. Che da sempre è invece un meccanismo di occulta sperequazione, dato che su quella linea di partenza, al di là della quale andrebbero disputate le opportunità in condizioni di uguaglianza, ci si presenta con impari dotazione di capitale culturale e sociale.

La rassegna prosegue con contributi che vanno dall’analisi teorica del concetto (Damiani su un saggio di Cingari) alla descrizione della via cinese alla meritocrazia per come la racconta Daniel Bell in una sua opera recente (Clementi), da un nostro saggio sul rapporto fra cittadinanza e merito al rapporto complicato fra eccellenza e equità (Terracciano).

Altrettanto densa è la seconda sezione, dove trovano spazio saggi sulla valutazione della produzione scientifica delle università, su parametri iper-aziendalisti. Qui i saggi di Borrelli, Lombardinilo e Zapelli sono illuminanti, suffragati da altri interventi di Carbone, Cingari e Mornagui. Ne sortisce un quadro di grande ricchezza interdisciplinare, che pone l’estrema ambiguità del concetto.

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