E allora la Lega? Stavolta è il Pd a ribaltare il tormentone di cui è stato vittima ai tempi del “caso Bibbiano”. E lo fa contro Matteo Salvini e Forza Italia chiedono una verifica di governo dopo l’astensione del M5s sul dl aiuti ieri a Montecitorio. Mentre il presidente Mario Draghi sale al Colle per riferire la situazione che si è creata nella sua maggioranza, nella sede del Pd si compulsano i precedenti di quando, nell’ultimo governo, una forza politica di maggioranza non ha votato un provvedimento del governo.

E l’esempio squadernato è proprio quello della Lega sul green pass: a febbraio del 2021 i ministri non parteciparono al Consiglio dei ministri che licenziava nuove restrizioni per i non muniti di green pass; poi i gruppi votarono contro in commissione e infine si astennero in aula. La scena si ripete a settembre, nel provvedimento bis. Per non adeguarsi alle scelte del governo, la metà dei deputati è assente al voto finale alla Camera. Stavolta Enrico Letta si scatena: «È un fatto gravissimo, chiedo un chiarimento ufficiale e politico». Oggi la storia si ripete, a parti rovesciate, e quindi – è la morale che deriva implicitamente dal ragionamento che circola al Nazareno – «è singolare che siano proprio loro a chiedere una verifica». Tanto più che l’astensione di ieri era ampiamente annunciata.

Ma tutto questo non toglie il fatto che il Pd stavolta intravede la rottura giovedì al Senato, quando arriverà al voto il dl aiuti per la conversione definitiva. Letta ieri ha sentito i suoi ministri, e alla fine di una giornata in cui la crisi si è toccata con mano il suo staff lo descrive come comunque «fiducioso», «nonostante le difficoltà il filo non si spezzerà e il governo non cadrà». Comunque Letta vuole chiarire che parte farà. Che è quella di sempre: «Gli italiani sanno di poter contare sul partito che più di tutti ha a cuore la garanzia della tenuta e della continuità delle riforme, cioè il Pd. Prima il paese è la nostra bussola. E il paese oggi ha bisogno di governo che faccia riforme e usi i soldi europei del Pnrr. E che comunque tutto avviene nella trasparenza più totale». In caso di rottura, il premier e il Pd hanno assicurato che con ci sarà un Draghi bis. Eppure una maggioranza, sebbene risicata, continuerebbe ad esserci. La palla passerebbe al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, tradizionalmente poco incline alle urne anticipate.

Le prossime 48 ore

«Aspettiamo le prossime 48 ore», è il mantra dei vertici del Pd. La speranza è legata all’incontro di oggi fra governo e sindacati: da lì potrebbe uscire un segnale in direzione delle richieste «sociali» contenute nella lettera consegnata il 6 luglio da Giuseppe Conte al presidente del Consiglio. Uomo-chiave della soluzione della crisi, ammesso che sia ancora possibile immaginare una soluzione, è dunque il ministro Andrea Orlando, che infatti in questi ultimi giorni ha spiegato urbi et orbi la mediazione possibile sul salario minimo, una delle richieste dei Cinque stelle. Un traguardo «storico», secondo il Pd. Dal Pd arriva comunque «un ultimo appello alla responsabilità. Le richieste che i Cinque stelle hanno fatto al governo riceveranno delle risposte, del resto sono già nell’agenda di governo», secondo un deputato molto vicino al segretario, «rompere prima di arrivare a obiettivi ormai a portata di mano sarebbe incomprensibile. Serve responsabilità e serietà». In queste ore il Pd ha inviato ha distribuito interviste sulla stampa per non isolare Conte. Ma è chiaro che agli insorgenti del movimento non è bastato.

Chi lavora alla crisi

Il fatto è che anche nel lato sinistro della maggioranza c’è chi spera di liberarsi dei Cinque stelle. Di sponda, di fatto, con le destre. Per chiudere i tanti conti rimasti aperti da altre stagioni politiche. Come la viceministra alle Infrastrutture Teresa Bellanova, secondo la quale «i Cinque stelle sono già automaticamente fuori dal perimetro del governo Draghi». Renzi dà del «clown» a Conte e ragione a Forza Italia: «Il M5s ci faccia sapere. Penso che il Paese non possa più aspettare. C’è bisogno di rimettersi in moto, che il governo Draghi possa governare, se vogliono andare ad elezioni si vada a elezioni, se vogliono andare avanti con questo governo si vada avanti, ed e la scelta che noi preferiamo, se si vuole fare un Draghi bis lo si faccia, ma non si può più fare aspettare la gente». Poi ci sono gli scissionisti del ministro Luigi Di Maio che vedono nella crisi la possibilità di rafforzare il loro ruolo nell’esecutivo e forse anche nella futuribile alleanza di centrosinistra.

«Reazioni scomposte»

A dare una mano a Letta rimane solo Art.1. Il presidente dei deputati Federico Fornaro è duro contro quelle che definisce «le reazioni scomposte della Lega e di Forza Italia». L’argomentazione di Fornaro è simile a quella del Nazareno: «Per mesi Lega e Forza Italia hanno posto i loro problemi sulla riforma del catasto e sulla delega fiscale. I nove punti del M5s non sono richieste strumentali o provocatorie. Draghi ha detto che li avrebbe “approfonditi”».

Del resto non è nell’interesse del governo provocare una nuova fuoriuscita verso il gruppo di Di Maio. E se il M5s decidesse davvero di non partecipare al voto sul dl aiuti, giovedì, per Fornaro non bisognerebbe drammatizzare perché quel non voto sarebbe in linea con le distinzioni che i Cinque stelle alla Camera hanno potuto esprimere sul provvedimento, nel secondo tempo: «Il governo non andrebbe sotto e non verrebbe meno la fiducia al governo». Quindi “tecnicamente” Draghi non dovrebbe rimettere il mandato. Ma non è un fatto di numeri. Il fatto è che in quel caso sarebbe, sarà, impossibile negare il segno politico definitivo della dissociazione grillina.

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