«Il Pnrr viene considerato o un fiore all’occhiello o un tesoro già messo da parte», e invece «l’attuazione del piano è l’unica chance per il cambio di passo». Paolo Gentiloni lancia un suo allarme all’assemblea di Confindustria Firenze. Lo fa da Firenze, la città da dove ieri Matteo Renzi ha inaugurato la Leopolda. Per il commissario europeo agli Affari economici la preoccupazione sul piano di ripresa è forte. Lo sfilacciamento della maggioranza rallenta la corsa del governo. «Guai a considerare già incamerate le risorse del Recovery fund», aveva già detto nei giorni scorsi da Bergamo.

Il nome di Gentiloni prende quota per il Colle. E a lavorare su di lui è Matteo Renzi. C’è chi racconta che è per parlare di lui, se non con lui, che la scorsa settimana è volato a Bruxelles a incontrare la commissaria europea alla Concorrenza Margrethe Vestager. Se “Paolo” dovesse dimettersi dalla Commissione, al suo posto potrebbe andare un esponente di Forza Italia. La cosa non piacerebbe al Pd ma aiuterebbe il partito di Silvio Berlusconi a votarlo alla presidenza della Repubblica.

Discreta presenza

Per il Quirinale vale la regola d’oro che chi si sente papabile si trincera in un prudente silenzio. Così sta facendo Pierferdinando Casini. Il commissario invece parla. E parla per dire, a chi vuole capire, che Draghi serve al posto di comando della nave italiana, cioè a palazzo Chigi. Per il resto la sua azione è silenziosa ma inesorabile. Attribuiscono a lui il gradimento dem per la neodirettrice del Tg1 Monica Maggioni, tramite Antonio Funiciello, capo di gabinetto di Mario Draghi ed ex capo staff di Gentiloni premier, tra il 2016 e il 2018. Un tocco lievissimo sul neosindaco di Roma Roberto Gualtieri gli ha portato a due assessori di stretta osservanza, Eugenio Patané e Tobia Zevi, insieme alla minisindaca Lorenza Bonaccorsi.

Renzi e Gentiloni non sono “migliori amici” dalla fine del 2016, quando il fiorentino, cacciato a furor di referendum da palazzo Chigi, gli consegnò il governo nelle mani, e una serie guai irrisolti (il decreto sulle banche, la riforma dei voucher...). Nell’idea di Renzi doveva essere un governo per andare al voto. E invece il governo durò fino a fine legislatura, e non permise all’ex premier umiliato di cercare la rivincita alle urne.

Ma più che il passato conta il futuro. Renzi punta a lanciare il nome del commissario prima di Enrico Letta, quindi intestandosi il gol, e azzoppando il segretario Pd. Ed è anche convinto che tra l’ex ministro degli esteri e il leader Pd resista qualche ruggine dei tempi della defenestrazione del 2014. Quando Gentiloni, sempre un passo indietro rispetto alla prima linea del fuoco renziano, fece parte della compagnia dei defenestratori.

Gentiloni però è rimasto in ottimi rapporti con gli ex colleghi parlamentari e ministri, forse non del tutto con Dario Franceschini ma certamente con Carlo Calenda. Intanto un altro ex ministro del suo governo, Graziano Delrio, oggi a Roma lancia la sua corrente, Comunità democratica.

(Foto Duccio Ricciardelli - LaPresse)

Le mosse di Letta

Letta è determinato a non concedere la mossa a Renzi. Quindi lo scorso 11 novembre, quando è volato a Bruxelles a domare la rivolta di mezzo gruppo dem contro l’ingresso dei Cinque stelle in S&D (rivolta capitanata dalla vicesegretaria Irene Tinagli), ha voluto riservatamente incontrare Gentiloni per un pranzo di lavoro. Notizia non ufficialmente comunicata, sgocciolata solo dove era utile si sapesse.

Letta sparge miele sul commissario, ricordando «l’ottimo rapporto», il lavoro comune nel recente incontro del Global progress summit 2021, a Roma in collaborazione con i socialisti del Pse. Nel frattempo lavora a compattare i gruppi parlamentari, e il partito tutto. Mercoledì prossimo a Roma presenterà il libro di Stefano Bonaccini, quello che doveva essere il suo sfidante ad un eventuale congresso e che invece ha offerto collaborazione per le amministrative, e anche per il voto del Colle.

Renzi prova a fregarlo. Giovedì al Senato insieme alle destre ha mandato per due volte il governo sotto sul dl Capienza, tanto per avvisare il premier Draghi che il voto su di lui non è scontato e Letta che c’è qualcuno che sta già tirando le fila di una possibile maggioranza. Poi lancia avvisi ai parlamentari, in apprensione per l’eventuale precipitare del voto anticipato. «Il rischio elezioni c'è con qualsiasi presidente», dice Renzi all’Huffington Post, anche perché «Letta e Conte tirano a votare». Ai due, secondo Renzi, conviene Draghi al Colle e subito alle urne: Letta perché teorizza il ritorno alla dialettica sinistra-destra, Conte perché la sua leadership su M5s potrebbe evaporare prima della fine naturale della legislatura. Una guerra di nervi, appena cominciata.

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