Un campo largo per il piccolo Abruzzo, una regione che conta meno di un milione e mezzo di abitanti. Ma che pure è destinata spostare le montagne degli equilibri nazionali. Perché, si sa, il trend in politica vale più dei numeri. Oggi, dalle 7 alle 23, gli elettori abruzzesi possono infatti dire molto al governo, con un avvertimento sulla delusione della Meloni band, e ancora di più possono dire alle forze di opposizione, ritrovatesi intorno al nome di Luciano D’Amico, mite docente di professione e aspirante salvatore della Patria dell’area progressista.

Intorno al suo nome, finora poco noto alla ribalta nazionale, ruota la possibilità di rinsaldare l’alternativa, che finora, nella narrazione mediatica e nella struttura politica, è sempre mancata. Un perfetto salvavita per il governo Meloni: in assenza di un fronte opposto coeso e competitivo, il centrodestra non ha granché da temere, nonostante le fibrillazioni interne.
Per il Pd di Elly Schlein, dunque, la partita è importante. Il colpo vincente in Sardegna è stata una boccata d’aria necessaria dopo una serie di rovesci elettorali. Ma c’è un’appendice che i detrattori della segretaria amano evidenziare: la vittoria è stata conquistata da Alessandra Todde, pupilla di Giuseppe Conte e portabandiera del Movimento 5 stelle.

Tradotto: il successo è intestato all’ex presidente del Consiglio, che può rivendicare la conquista della prima presidenza di regione per un esponente del M5s. Un dato oggettivo e che qualcuno, con malcelata malizia, ha fatto trapelare nei corridoi di largo del Nazareno in ottica anti-Schlein. Benché il Conte ultima versione sia decisamente meno rude nei confronti del Pd, essendosi reso conto di aver tirato troppo la corda nei mesi precedenti.

Termometro Abruzzo

Le elezioni nella terra d’Abruzzo, dunque, hanno tonalità distinte dalla pesca miracolosa in Sardegna: D’Amico è l’esperimento potenzialmente vincente, mai visto prima, capace di trovare l’elemento segreto per arrivare all’alchimia di unire gli opposti, ossia mettere insieme Carlo Calenda e Giuseppe Conte, Matteo Renzi e Nicola Fratoianni. Tutti profili che non hanno simpatia personale l’un per l’altro, aggravando le distanze politiche su alcuni temi.

Il brutto anatroccolo dell’accrocchio si trasformerebbe in un cigno vittorioso.
Questa è insomma la scommessa di Schlein, che ha in mente una linea precisa: incontrarsi sui punti concreti, sedendosi al tavolo e accettando dei compromessi. Soprattutto con candidati di spicco a fare da garanti per i voti sui territori. L’affermazione di D’Amico sul meloniano strong Marco Marsilio sarebbe il bollino ufficiale necessario alla leader dem per mostrare ai compagni di opposizioni, recalcitranti alle alleanze, che non c’è altro modo per vincere: fare delle coalizioni ampie.

L’Abruzzo è così il termometro perfetto, in un territorio storicamente democristiano ma che nella seconda Repubblica ha vissuto un’alternanza di colori politici al comando della regione. Che è quindi contendibile. Certo di mezzo c’è la “toponomastica” giusta dell'alleanza da individuare, tra chi preferisce il campo largo, di marca lettiana, chi come Conte opta per il campo giusto o chi, con imprinting più politicista, vaticina di un campo progressista.

Resta il fatto che il campo va riempito di protagonisti e di progetti. Per farlo il crocevia è l'Abruzzo, che consente di volgere lo sguardo alla Basilicata, ultima tappa intermedia in primavera prima della volatona delle Europee. L’afflato unitario ne uscirebbe più solido se D’Amico dovesse diventare l’erede della poltrona di Marsilio.

I rischi dell’all-in

Il risvolto è però che dal voto di oggi potrebbe arrivare una battuta d’arresto al progetto caro a Schlein: l’eventuale riconferma di Marsilio sarebbe la stura al fuggi-fuggi generale di chi sarebbe pronto a dichiararsi contro coalizioni troppo ampie. Addirittura, all’interno dello stesso Pd in cui abbondano i “pentascettici”, i dirigenti che non gradiscono in particolar modo il dialogo serrato con Conte.
Insomma, l’ipotetico ko (che va sempre valutato sull’entità) darebbe fiato ai soliti discorsi, zeppi di distinguo nella prateria del centrosinistra. Probabilmente non sarebbe la fine del confronto, ma rappresenterebbe comunque una picconata. E vanificando in parte la paziente opera di tessitura avviata da Schlein.
Di sicuro la tempistica della Leopolda, la kermesse renziana giunta alla dodicesima edizione, dove il mattatore dell’evento, Matteo Renzi, ha cercato di tenersi a distanza dagli alleati in un esercizio di equilibrismo di elevato coefficiente di difficoltà. Alla vigilia di un passaggio elettorale così importante, come quello abruzzese, ha sancito la rottura definitiva per le Comunali a Firenze: «Con il Pd è finita, perché il Pd ha cambiato posizione rispetto al passato» riferendosi in particolare alle multe per eccesso di velocità.

Ma Renzi non si è limitato a temi da tachimetro, è tornato a prendersela con il salario minimo: «Il tema è il salario d’ingresso, non il minimo». Facendo di tutto per marcare una presa di distanza. Da quelli che sono gli alleati in Abruzzo. Anche un modo per lanciare un messaggio al Pd e agli altri: a prescindere dalla vittoria o meno di D’Amico, sta giocando un’altra partita. Su un campo che non è largo, né progressista. Ma è un campo tutto suo.

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