Collegato su zoom con i seicento candidati del Pd, Enrico Letta prova a dare «una scossa» alla campagna elettorale del partito.

Lancia l’ultima fase della corsa sugli schermi dei suoi in camicia bianca, cravatta rossa, incorniciato dal tricolore che è contenuto nel simbolo. Alza i toni, drammatizza al massimo, parla di «allarme per la democrazia». Spiega che sono in corso «tre abbagli» che stanno orientando il voto. Il primo è che «la vittoria della destra è già scritta» ed è inutile combattere, dunque «il rischio è che al posto del voto utile ci sia il voto della leggerezza, della superficialità.

Il voto per le liste di Calenda e Conte è oggettivamente un aiuto per la vittoria della destra», scandisce, «uno vuol fare il governo con Meloni, l’altro ha il sostegno di Trump». Il secondo abbaglio è che «il governo Meloni durerà poco», sbagliato «perché con una vittoria larga della destra, le carte si rimescoleranno, ma all’interno della destra. Tutti coloro che sono fuori dalla destra non avranno nessuna voce in capitolo». Il terzo, altrettanto tranquillizzante, è che comunque «l’Europa ci salverà», cita la sottovalutazione del voto alla vigilia del referendum per la Brexit in Gran Bretagna.

Invece, spiega, ci sono sessanta collegi contendibili che si basano sul filo di 5mila voti alla Camera e 15mila al Senato, collegio per collegio. Il voto al Pd eviterebbe «una torsione ipermaggioritaria» del parlamento che porterebbe il paese «verso l’abisso». Il segretario svolge un ragionamento che definisce matematico: «Ogni voto rubato da Calenda e da Conte al Pd è un voto regalato alla destra», perché il Rosatellum, la legge elettorale che assegna i seggi uninominali a chi ottiene un voto in più dell’avversario, non perdona. E «con il 43 per cento dei voti la destra può ottenere il 70 per cento della rappresentanza parlamentare. Non c’è altro da fare che votare il Pd, senza disperdere i voti in Azione o nel M5s».

Le attenzioni della macchina elettorale del Pd sono puntate su una quarantina di collegi contendibili che solo il centrosinistra ha possibilità di strappare alle destre. Serve dunque fare il pieno nelle regioni rosse, Emilia Romagna e Toscana, nelle grandi città governate dal centrosinistra, come Milano, Torino, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, e qualche successo meno facile nelle città o nelle regioni in bilico.

Quello di Letta è definito dalla war room un «cambio di gioco»: un’accelerata sul voto utile. Gli avversari ex alleati la prendono male. Calenda accusa Letta di ammettere di «aver già perso». Ce l’ha con una frase in cui il segretario dice «un più 4 per cento di voti a noi consentirebbe di tenere la destra sotto il 55 per cento e riportare la partita nella sfera della contendibilità», il riferimento era al rischio tombale del senato. Con Conte lo scontro è durissimo, nonostante i trascorsi.

Per Letta «ieri Trump, oggi Putin: ecco qual è la vera essenza del partito di Grillo». La replica: «Smettila con le balle, io sono lontano da Trump». Che però secondo le cronache fa il tifo per lui, il suo «Giuseppi». Il presidente finge di non saperlo, parla di «macchina del fango» e cita Renzi: «Alcuni esponenti del Pd, compreso Letta, non sembrano proprio tanto sereni».

Messaggio anche al Pd

Ma in realtà non c’è solo lo scontro con gli avversari nella scelta di un salto di decibel. C’è qualcosa, rimbalzata anche nelle cronache, che non sta girando a pieno ritmo anche nella macchina, qualche inceppo che al Nazareno a mezza bocca viene descritto come un meccanismo di accomodamento da posto sicuro nel listino, e che si è tradotto in «troppe divisioni sulle liste, troppa gente in ferie ad agosto».

Letta sente il sostegno dei due vicesegretari, Giuseppe Provenzano (impegnato in una tostissima doppia campagna in Sicilia, quella per le politiche, da capolista in due collegi, ma anche in quella complicatissima per il voto regionale, nello stesso giorno) e Irene Tinagli, eurodeputata non candidata ma schierata in marcatura di Carlo Calenda – che infatti l’attacca, al capo di un esercito di follower –. Sente la vicinanza dell’ex segretario Nicola Zingaretti, che ieri ha parlato dal palco del lancio della campagna nazionale. Ma non da tutto il gruppo dirigente percepisce lo stesso di impegno. E l’impressione è che non sia solo malizia mediatica il sospetto che circola sui giornali di qualcuno che aspetta l’ora di una resa dei conti dopo il voto.

Zingaretti conosce il metodo e lo dice dal palco: «Anche negli errori, mai sono stato tentato dalla voglia di distruggere, combattiamo fino al 25 settembre uniti». Più tardi, in un forum con l’agenzia LaPresse, Letta risponde seccamente: «La cosa più demenziale che si possa fare in campagna elettorale è mettersi a ragionare di un congresso che verrà dopo». Ma ce l’ha soprattutto con Renzi, che batte sul tasto di un imminente congresso del Pd.

Con chi lo ferma per strada, dopo i comizi, è più esplicito: «Renzi continua a interessarsi al congresso del Pd come quegli scapoloni di paese che per troppa solitudine mettono il becco nei matrimoni degli altri. Ma perché non parla del suo prossimo congresso, quello di Matteo Renzi contro Renzi Matteo?». Ieri pomeriggio il segretario a Roma, in piazza Santi Apostoli, la piazza dell’Ulivo, ha inaugurato la campagna nazionale.

Nella capitale non sarà un pranzo di gala: qui FdI è già il primo partito e il sindaco Roberto Gualtieri, che fatica a venire a capo della questione dei rifiuti, dal palco ha avvertito che «votare la destra che vuole dire la follia di cambiare il Pnrr». Venerdì da Brescia il segretario inizierà un tour per le province italiane in bus elettrico. Tappe non troppo distanziate, a tiro di carica di batteria.

Chiusura il 23 settembre di nuovo nella capitale, nella sterminata Piazza del Popolo. Andrà riempita. Sapendo comunque che le piazze piene non sono mai state il termometro delle urne.

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