Una televisione tutta casa e famiglia. E nazione, possibilmente. Al panel sulla tv di Atreju per evitare la china Telemeloni gli ospiti sono quattro apolitici capisaldi del tubo catodico come Mara Venier, Carlo Conti, Marco Liorni ed Ezio Greggio.

Il risultato è un bagno di nazionalpopolarità con una spolverata di frasi fatte: si parte con Venier che si intesta la maternità professionale di Conti e Liorni – il suo «vi ho visti crescere» ha un sapore pippobaudesco –, poi è la volta dei ringraziamenti reciproci, con il conduttore dell’Eredità che rievoca il momento chiave della sua carriera in cui Conti gli ha detto «Dai che sei forte». E poi, un inevitabile richiamo all’importanza della gavetta che, signora mia, oggi non fa più nessuno e spesso i conduttori vengono lanciati subito al successo.

Ma d’altra parte, l’edizione 2025 di Atreju è quella della stabilità, forse già quella della comodità sulle poltrone dell’esecutivo: si respira aria di governo, le cose vanno secondo le aspettative, non ci sono stati spoiler sul programma – «Alla fine eravamo in due a fare le chiamate, ecco perché» racconta uno degli organizzatori – nessun ospite fa più scalpore, neanche quelli dell’opposizione.

Fratelli di nazionalpopolare

La sala-gazebo con pavimento rosso e le piante ai lati che un po’ arredano è piena, ma non strapiena, la prima fila da un lato è riempita da volontari, dall’altro siedono tutti i big di partito: il capogruppo Galeazzo Bignami, il sottosegretario Andrea Delmastro, la padrona di casa Arianna Meloni, il responsabile territori Giovanni Donzelli. E il sottosegretario «con delega a Sanremo» (cit. Dagospia) Gianmarco Mazzi, immancabile quando si tratta di vicende di spettacolo, anche se chi li conosce bene suggerisce che tra lui e Conti non ci sia più di un rapporto cordiale. A un certo punto si affaccia anche Ignazio La Russa, ma il presidente del Senato non è in vena delle sue solite risposte taglienti e a fine incontro fugge via verso il backstage. 

Arianna ascolta attenta, piegata in avanti con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, applaude entusiasta Venier: «Io sono Mara nazionalpopolare», come a dire che non è una parolaccia, anzi un pregio. La nazionalpopolarità dei meloniani è il “buonsenso” del Salvini che fu, quando dal 34 per cento nei sondaggi nel 2019 il leader della Lega giustificava manovre securitarie durissime con le giuste preoccupazioni dell’uomo qualunque. 

«Essere nazionalpopolari è stare nel cuore della gente e fare una tv che la gente ama» rincara la dose Greggio, che si collega a metà evento da un luogo «fuori dagli studi Mediaset» che più che Cologno Monzese sembra campagna lombarda wild. In ogni caso, dice il conduttore di Striscia, «portiamo un momento di serenità, che ne abbiamo tutti bisogno». Anche perché non esistono più le mezze stagioni. 

Il resto è autocelebrazione e volemose bene. Si parla di «rispetto del telespettatore», del fatto che i quiz debbano avere anche un «ruolo pedagogico». «Perché anche quello che fa Mara con Tommaso Cerno è uno spazio in cui si respira quello che c’è fuori» dice Liorni, evocando l’uomo-immagine del giornalismo in epoca meloniana, da tempo tirato in ballo ogni volta che a via Asiago ragionano di un nuovo talk televisivo (ma pure per i balletti insieme a Venier e Teo Teocoli).

Insomma, la Rai è ancora un po’ mamma un po’ maestra. A calare l’asso è Venier: «Noi siamo anche Rai, rappresentiamo il servizio pubblico». «La cultura non vuol dire soltanto acquisire nozioni ma anche saper rispettare gli altri» dice Conti, che racconta come lo abbiano avvicinato migranti – «Ma non per il colore della pelle, eh!» – per ringraziarlo delle sue “lezioni” di italiano all’Eredità, dove mentre il conduttore leggeva la domanda appariva in sovrimpressione e loro potevano imparare a leggere. «Come il maestro Manzi!» incalza Venier. E come te sbagli. Non possono mancare gli omaggi obbligati agli altri eroi dell’immaginario nazionalpopolare, da Pippo Baudo a Renzo Arbore passando per Raimondo Vianello, Antonio Ricci e il compianto Fabrizio Frizzi («la sua morte ci ha fatto riflettere tanto»). 

Politicamente comodi

La comfort zone ideologica si allarga anche al politicamente scorretto, che si incarna in tante declinazioni diverse di «non si può più dire niente»: «La satira non può essere imbavagliata» dice Greggio, mentre per Conti il woke mette a rischio Amici miei e in generale «ci si prende un po’ troppo sul serio». E per non farsi mancare niente racconta del “whiteface” che propone a Tale e quale show dopo che – apriti cielo! – gli è stato chiesto di non far interpretare cantanti neri da partecipanti bianchi. 

«Da allora prendo un concorrente forte di colore e a un certo punto gli faccio interpretare un cantante bianco, sperando che nessuno si offenda. D’altra parte sono anch’io di colore!» e giù risate. Con Greggio che schiaccia la palla: «Infatti, sei stato il primo presentatore di colore di Sanremo!» 

Insomma, Atreju non è neanche brutto, è solo in linea con le aspettative. Un po’ come la Rai meloniana. Con le unghie spuntate dall’aura istituzionale che cerca di interpretare, più male che bene, la classe dirigente di Fratelli d’Italia. Anche il Bullometro, la mostra sulle parole d’odio della sinistra, è appena un cartellone lungo una ventina di metri. Altro che i cartonati di Corrado Formigli che giravano qualche anno fa: qui una volta era tutto rancore, ora è stato sommerso da una nevicata di vin brulé e comfort tricolore.

Atreju non graffia più, ormai accarezza, sicura della sua identità ecumenica in un panorama politico-televisivo cristallizzato in forme sempre uguali, senza guizzi di novità. D’altra parte, come dice Mara, 75 anni e diciassette edizioni di Domenica in all’attivo, «il format so’ io». 

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