L’approvazione alla Camera del testo sull’autonomia differenzia, la “madre di tutte le riforme” per i leghisti, non arriverà prima delle europee. Con buona pace dei proclami del segretario della Lega Matteo Salvini che, a braccetto con il ministro Roberto Calderoli padre della legge, aveva garantito ai fedelissimi che avrebbe fatto il possibile per portare a casa un successo per sé e per il partito prima delle elezioni di giugno.

Andamento lento

A vincere la partita, invece, sono stati Giorgia Meloni e Antonio Tajani. Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno cercato di frenare, senza troppo clamore, l’iter del provvedimento. Timorosi di eventuali ricadute elettorali nel Mezzogiorno. Ci sono riusciti. «Il tema ha iniziato a far presa nell’elettorato meridionale, nonostante all’inizio sembrava fosse ridotto a un dibattito accademico», ammettono dalle parti di Fratelli d’Italia, prendendo nota di come le opposizioni cavalchino le polemiche. Perciò hanno preferito evitare forzature.

Così il calendario dei lavori dell’aula di Montecitorio, approvato nella conferenza dei capigruppo, ha messo nero su bianco l’ipotesi che circolava da tempo: il via libera definitivo arriverà dopo il voto dell’8-9 giugno. Decisamente più in là nel tempo rispetto dall’ok ricevuto dal Senato.

A meno che gli alleati, a risultato delle europee acquisito, non decidano di rallentare ancora di più il percorso. Fino ad alimentare l’ipotesi di “navetta” con il Senato, ossia una modifica del testo per rispedire il disegno di legge a palazzo Madama. In Transatlantico è una voce che circola tra i deputati. E che potrebbe diventare realtà se il partito di Salvini perdesse consensi alle europee.

Stratagemma Montecitorio

Certo, sulla carta l’esame dell’autonomia differenziata è stato messo in agenda da martedì 21 maggio. Allora qual è il problema? L’escamotage si nasconde nei dettagli parlamentari: il testo è in coda agli altri provvedimenti. Questo significa che slitterà di almeno dieci giorni.

Si arriva a quel punto alla “settimana sabbatica” prima del voto che il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha concesso – in accordo con i capigruppo – per garantire ai deputati di portare avanti la parte finale della campagna elettorale. «Non c’è alcun dubbio sullo slittamento», confermano dai vertici dei partiti di centrodestra.

Salvini e soci possono giusto rivendicare nei loro comizi il fatto che l’autonomia è stata messa in calendario, senza svelare la parte aggiuntiva: la discussione finale slitterà sine die. Non proprio il massimo. A Domani, peraltro, confermano che c’era un patto nella maggioranza: ognuno avrebbe avuto il proprio strapuntino. La Lega ha ottenuto la calendarizzazione, FdI e FI hanno portato a casa il rinvio dell’approvazione.

I leghisti hanno accarezzato il sogno del blitz, forzando la mano in commissione Affari costituzionali, dove si è consumato uno strappo sulle regole parlamentari. C’è stata la ripetizione del voto di un emendamento delle opposizioni approvato per le assenze nel centrodestra. Le destre non hanno gradito e hanno invalidato deliberatamente un voto democratico.

L’obiettivo era quello di fare prima possibile, sperando in un’accelerazione e senza ulteriori traccheggiamenti. I meloniani hanno però tenuto il punto. Il bottino è quindi magro per Salvini: agli atti resta una forzatura inaudita. Per nulla. Intanto l’autonomia differenziata è comunque tema di campagna elettorale anche per il Pd. «Il 2 giugno faremo una manifestazione sulla Costituzione e sull’Europa federale, contro il premierato e contro l’autonomia differenziata», ha annunciato la segretaria Elly Schlein, parlando alla riunione del gruppo dem al Senato.

Del resto, formalmente c’è ancora tempo per provare a fermare l’approvazione definitiva del ddl Calderoli. Una riforma che riesce a mettere d’accordo la leader del Pd con il presidente della regione Campania. «Con l’autonomia differenziata la sanità al sud è morta», ha detto Vincenzo De Luca con il suo solito eloquio senza fronzoli.

A tutto premierato

Se l’autonomia differenziata rischia di diventare un boomerang per la Lega, Meloni tenta di passare all’incasso con il premierato, approdato ieri in aula al Senato per la discussione generale. Per un alleato che va a rilento, ce n’è un altro che prova a mettere le ali.

La presidente del Consiglio ha beneficiato contestualmente di un convegno molto “pop” alla Camera sulla riforma della Costituzione, mettendo insieme vari mondi, dalle imprese allo spettacolo, dalla sanità all’energia. Sono passati alla spicciolata il nuotatore Filippo Magnini così come i cantanti Pupo e Amedeo Minghi, oltre ad altri come Giampaolo Angelucci, rampollo della dinastia che sta facendo incetta di testate. La prossima è l’Agi. Le fondazioni Alcide de Gasperi e Bettino Craxi, presiedute dagli ex ministri Angelino Alfano e Margherita Boniver, riapparsi nei radar politici, con l’idea di un confronto «non specialistico».

Di fatto si sono accreditati come interlocutori della destra meloniana. E hanno offerto un’occasione gustosa, nella Sala della Regina a Montecitorio, al governo. Con la sfilata di ministri, a cominciare da Elisabetta Alberti Casellati. Meloni ha colto la palla al balzo sciorinando i capisaldi della campagna di comunicazione sulle riforme: «Mettiamo fine alla stagione dei ribaltoni, alla stagione dei governi tecnici e alla stagione delle maggioranze arcobaleno» e «basta instabilità e al trasformismo».

Ma ha chiuso pungolando il Quirinale: «La riforma pone fine alla funzione di supplenza del capo dello stato». Tesi che fa a pugni con il teorema della destra, ripetuto ieri da Meloni, sul mantenere «inalterati» i poteri del Colle.

© Riproduzione riservata