Quali conseguenze concrete dobbiamo aspettarci dalla proposta di Autonomia differenziata presentata dal ministro Roberto Calderoli, su cui il 29 aprile dovrebbe iniziare la discussione alla Camera?

Sono tante e tali le materie in ballo che non è facile rispondere, ma per capire quali scenari si aprirebbero in caso di approvazione rispetto ad alcune delle più importanti sfide che il nostro paese dovrà affrontare nei prossimi anni, può essere utile approfondire un tema fino ad oggi poco discusso come quello dell’energia.

Dove, oltretutto, sono tanti i cambiamenti in corso, tra cui una generazione sempre più distribuita e incentrata sulle fonti rinnovabili, e quindi può aiutare ad affrontare le questioni senza atteggiamenti preclusivi verso un possibile trasferimento di poteri ai territori.

In fondo, solo questo dovrebbe interessare, capire se e come una riarticolazione dei poteri possa aiutare a rendere più efficaci i processi decisionali e, per l’energia, a garantire la sicurezza del sistema dentro un contesto internazionale così incerto rispetto agli approvvigionamenti dall’estero, mentre avanza la transizione verso un modello con emissioni sempre più basse.

I riferimenti del confronto al momento non sono molti, ma possiamo partire dalle materie che le regioni Veneto e Lombardia avevano chiesto di trasferire nella proposta formalizzata il 15 maggio 2019, e dal ventaglio di quelle che complessivamente potrebbero essere oggetto di richiesta.

Competenze e risorse

È un ricordo oramai sbiadito ma cinque anni fa, all’epoca del governo Conte I, con la strana maggioranza Cinque stelle-Lega, le regioni Veneto e Lombardia avevano presentato delle precise richieste di competenze che dovevano essere trasferite.

Dopo pochi mesi, la crisi di governo ha fatto arenare tutto il processo, che solo ora è ripartito. E le regioni si aspettano che il confronto inizi da lì. Le proposte erano state formalizzate dai presidenti Luca Zaia e Attilio Fontana in due documenti diversi, ma su molti aspetti convergenti.

In entrambi i casi il trasferimento riguarderebbe le valutazioni ambientali dei progetti di impianti termoelettrici, elettrodotti, oleodotti e gasdotti. La Lombardia aveva incluso anche tutte le competenze che riguardano le grandi derivazioni d’acqua a scopo idroelettrico, con le modalità per trasferirne la proprietà alla regione e anche la determinazione dei canoni connessi all’uso dell’acqua, compresi quelli per l’esercizio degli impianti.

Il Veneto aveva invece inserito, tra le varie richieste, le competenze in materia di stoccaggio del gas e l’attribuzione del gettito dell’accisa per il gas naturale, come delle royalties per l’estrazione di idrocarburi.

Il problema è che, con la messa da parte di queste proposte, si è chiuso anche il confronto su cosa sarebbe utile rivedere nell’articolazione delle competenze scongiurando il rischio di un paese Arlecchino con regole incerte e contraddittorie a seconda delle regioni.

Fissare il perimetro

L’aspetto più incredibile e preoccupante della proposta del ministro Calderoli è che non sono definiti i confini del confronto tra stato e regioni. Cosa potrà entrare sarà definito con specifici accordi a due.

Nel caso dell’energia, il menu da cui scegliere è teoricamente gigantesco, comprendendo persino la sicurezza degli approvvigionamenti e la vigilanza sulle scorte strategiche. Lasciando da parte questi casi estremi, su tutte le altre competenze sarà il confronto politico-istituzionale sulle richieste fatte dalle regioni a determinare cosa rimarrà al centro e cosa verrà trasferito.

Ad esempio, la delicata partita delle risorse economiche che provengono dai canoni per gli impianti idroelettrici, dalle royalties sull’estrazione di idrocarburi liquidi e gassosi, da quelli sugli impianti da fonti rinnovabili. Qui il problema non è lasciare indietro le regioni del Sud, come avviene per la sanità, ma evitare di scoperchiare il vaso di Pandora.

Perché, analogamente a Veneto e Lombardia, anche la Sicilia potrebbe pretendere di vedersi riconoscere i poteri per vincolare gli impianti fotovoltaici al pagamento di una tassa, come il presidente regionale Renato Schifani ha chiesto da tempo. E lo stesso potrebbe valere per la Sardegna o la Puglia con quelli eolici. E perché non mettere in gioco almeno in parte le reti energetiche?

In questo contesto una regione può legittimamente chiedere di avere trasferiti i poteri di programmazione, autorizzazione e di definizione degli oneri per quanto riguarda la rete elettrica diffusa nei territori, quella di distribuzione.

In fondo già oggi è in concessione a varie utility controllate da enti locali e, ad esempio in Germania, sono spesso i comuni a detenerne la proprietà. Già ci aspettiamo la risposta che questi sono esempi paradossali, perché ci saranno negoziati con il governo e quindi il rischio non esiste. Ma è davvero così? Sicuri che non ci siano esperienze, in Italia e all’estero – pensiamo alla Spagna – dove partiti regionali sono riusciti a ottenere concessioni fino a quel momento impensabili in cambio del voto positivo ad accordi di coalizione?

In un contesto di risorse pubbliche scarse per il welfare e gli investimenti, mettere le mani su questi canoni è la ricetta più semplice per saltare tante negoziazioni sul bilancio. Il punto è che senza paletti e obiettivi chiari diventa impossibile costruire una discussione seria sull’autonomia differenziata, persino in un ambito come quello dell’energia dove pure sono auspicabili riforme e non esiste al momento la questione dei Livelli essenziali delle prestazioni.

È chiaro l’obiettivo della Lega di arrivare a un voto prima delle elezioni europee, ma se non si aprirà una discussione seria su quali ambiti sono negoziabili e quali invece non possono essere toccati – e non per difendere una impostazione centralista, ma per semplice buon senso e di efficace equilibrio dei poteri tra organi dello stato – la proposta Calderoli risulterà un pericoloso salto nel buio.

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